Combattenti di Abu Sayyaf nelle Filippine

Le Filippine si stanno trasformando nel “regno del terrore”

Giulia Pompili

Al sud il gruppo legato allo Stato islamico uccide un ostaggio tedesco. A Manila Duterte arresta i suoi oppositori politici

Roma. E’ stato diffuso sui social network lunedì il video dell’esecuzione di Jirgen Kantner, skipper settantenne di nazionalità tedesca, rapito a novembre tra le isole Sulu e Laparan, territorio filippino, a metà strada con Sabah, la regione della Malaysia nella parte più settentrionale del Borneo. Il gruppo, affiliato allo Stato islamico di Abu Sayyaf, aveva chiesto per il rilascio di Kantner un riscatto di 600 mila dollari. L’ultimatum è scaduto domenica scorsa, e secondo le autorità filippine Kantner sarebbe stato decapitato intorno alle 15 e 30, ora locale, dello stesso giorno. A novembre Kantner si trovava nelle acque del sud delle Filippine dove opera Abu Sayyaf. Durante l’attacco al suo yatch, la moglie, Sabine Merz, venne uccisa. Domenica, poco dopo la diffusione del video, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Manila, Jesus Dureza, ha confermato la morte dell’ostaggio tedesco: “Condanniamo con forza la barbara decapitazione di un’altra vittima di rapimento”, si legge in un comunicato ufficiale, “fino all’ultimo tutte le Forze armate filippine hanno cercato strenuamente di salvargli la vita. Abbiamo fatto tutti del nostro meglio. Ma senza risultati”.

 

Lo schema che Abu Sayyaf segue ormai da decenni è quello del rapimento – soprattutto di stranieri – per finanziare le sue attività. Attualmente, secondo le Forze armate di Manila, il gruppo avrebbe in ostaggio 19 stranieri, tra cui vietnamiti, indonesiani e un olandese, e almeno 7 filippini. Nel 2016 Abu Sayyaf ha ucciso due ostaggi canadesi, Robert Hall e John Ridsdel, mentre il norvegese Kjartan Sekkingstad è stato liberato nel settembre dello scorso anno “a seguito del pagamento di un riscatto”. Fino a poco tempo fa il gruppo islamista del sud delle Filippine, un tempo legato ad al Qaida, veniva definito il “bancomat” dei gruppi ribelli della zona, per lo schema infallibile di rapimenti a scopo di estorsione, in una sorta di banditismo che serviva anche ad accattivare il favore della popolazione locale. Ma il legame con lo Stato islamico ha cambiato le finalità del gruppo, che ora ha una guerra più internazionale da combattere e finanziare. Guardare a quello che sta succedendo nel sud delle Filippine, con il potere degli estremisti islamici che cresce incontrollato – e l’ammissione di Dureza lo conferma – serve a dare una nuova prospettiva alle presidenza di Rodrigo Duterte. Venerdì scorso è stata arrestata a Manila Leila de Lima, senatrice ed ex funzionaria dei diritti umani, considerata il volto dell’opposizione a quelli che sono considerati i “metodi squadristi” dell’Amministrazione al governo.

 

Da anni De Lima denuncia le violazioni dei diritti umani da parte di Duterte, compresa la sua “guerra alla droga”, testimoniata dalla maggior parte delle testate internazionali, e le esecuzioni sommarie che non sono state mai smentite nemmeno dallo stesso presidente. Dal luglio dello scorso anno sarebbero state uccise più di 7 mila persone. De Lima è stata accusata di aver preso soldi da un signore della droga, accuse che lei nega, e venerdì, quando si è consegnata alla polizia, ha detto: “Non saranno in grado di farmi tacere o impedirmi di lottare per la verità e la giustizia, contro le uccisioni quotidiane e la repressione del regime di Duterte”. De Lima parla esplicitamente di un regime che sarebbe stato imposto a Manila sin dal giugno del 2016, quando Rodrigo Duterte ha vinto le elezioni presidenziali. Mentre l’America non si è espressa formalmente sulla vicenda, e la Cina deve ancora trovare un accordo con Manila per portarla definitivamente fuori dalla sfera d’influenza americana, i fedeli cattolici, che formano il terzo più grande paese cattolico del mondo, hanno protestato nelle strade della capitale. La scorsa settimana più di ventimila cattolici hanno sfilato per le strade di Manila contro la “sanguinosa guerra alla droga” di Duterte, condannata anche dalla Conferenza episcopale filippina. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.