Tra piazze e accuse, così si polarizzano i turchi in Germania

Daniel Mosseri

Il presidente Erdogan cerca la rissa, chiedendo lealta’. Ma corre il rischio di alienare la sua comunita’

Berlino. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha cercato la rissa e, per qualche ora, l’ha trovata. L’ultimo sondaggio diffuso in Turchia dalla Konda dà i “no” ancora in lieve vantaggio al 51 per cento e lui non può certo permettersi una sconfitta al referendum costituzionale sull’aumento dei poteri presidenziali (i suoi). Erdogan sa che alzare i toni con la Germania aiuta a polarizzare e a trascinare alle urne quel 45 per cento di giovani che ha dichiarato di non volere votare. E’ agli indecisi a casa e all’estero che l’aspirante presidente-con-pieni-poteri guarda quando accusa i tedeschi di usare metodi da nazisti o di dare copertura politica ai terroristi. La corsa è già iniziata: all’estero le operazioni di voti per il referendum costituzionale sono iniziate il 30 marzo e si concludono il 9 aprile. Una settimana prima della data in cui la Turchia deciderà se trasformarsi in una repubblica presidenziale (“sì”) oppure se le prerogative dei 550 deputati della Grande assemblea nazionale turca resteranno intatte (“no”). Solo in Germania gli aventi diritto al voto sono 1,4 milioni ma ce ne sono altrettanti sparsi fra Austria, Belgio, Olanda, Francia, Svizzera e Danimarca. Per settimane Angela Merkel, con la placida fermezza di cui è capace, ha respinto gli insulti di Erdogan, osservando che le sue parole squalificavano solamente chi le pronunciava. La seconda carica dello stato, il presidente del Bundestag Norbert Lammert, ha invece risposto all’aspirante sultano elettivo colpendolo dove fa più male. “L’unico tentativo di putsch contro la democrazia turca è quello messo in piedi dal governo eletto”, ha dichiarato rievocando le parole del capo dei servizi di intelligence esterna (Bnd), Bruno Kahl. Allo Spiegel pochi giorni fa Kahl ha detto “di non essere convinto” che il predicatore islamico Gulen sia il burattinaio del tentato putsch anti Erdogan dello scorso luglio e che “la Turchia ha cercato di convincerci di tante cose”, ma la verità è che le purghe di Ankara contro gli oppositori erano iniziate “già prima del golpe”, declassato dunque a “comodo pretesto”.

 

Dopo Lammert ha parlato la capogruppo della Linke, Sahra Wagenknecht, che senza tanti giri di parole ha definito Erdogan “un terrorista”. Questo il clima in cui i turchi di Germania votano nei tredici seggi allestiti sul territorio della Repubblica federale. Seggi dove trovano giornalisti e telecamere curiosi di capire le ragioni del sì e del no. Ma da mesi i turchi all’estero sono ora le vittime involontarie ora i protagonisti attivi di uno scontro senza fine. Dal caso del comico Böhmermann a quello del giornalista Deniz Yücel, fino ai recentissimi tweet del ministro dell’Interno della Bassa Sassonia, Boris Pistorius, contro i tentativi “intollerabili, inaccettabili e paranoici” dei servizi segreti di Erdogan di spiare le attività di alcune centinaia di turchi in Germania (accusati, ovviamente, di gulenismo).

 

Tanta attenzione ha finito per polarizzare la comunità turca all’estero “alla quale sia Berlino sia Ankara chiedono lealtà”, spiega al Foglio Yasar Aydin, ricercatore esperto di Turchia e di migrazioni presso la Evangelische Hochschule di Amburgo. E se Erdogan è un leader divisivo, la spaccatura della comunità turca (che include oltre 500 mila curdi) non risale a ieri, “ma si è intensificata con Gezi Park”. Per Aydn non c’è nulla di male se i turchi si interessano alla politica del loro paese: “Bisognerebbe invece chiedersi perché la politica tedesca non riesca ad appassionarli”. Il che non significa che ne siano immuni: il ricercatore identifica nell’Spd il partito più popolare fra i turchi-tedeschi, a seguire i Verdi (peraltro guidati da Cem Özdemir, nato in Germania da genitori turchi), e infine la Linke. “La Cdu è ultima ma è in crescita, specialmente fra gli immigrati meglio posizionati”. Allo stesso tempo, ammette Aydin, “quando Erdogan utilizza una retorica anti occidentale rischia di far crescere l’alienazione degli immigrati, specialmente quelli più conservatori”. Di recente Wolfgang Schäuble se l’è presa con Erdogan, accusandolo di avere “deliberatamente distrutto anni di lavoro per l’integrazione dei turchi”.

 

Tuttavia il ricercatore osserva come la comunità turca di Germania sia una delle minoranze meglio integrate d’Europa, anni luce dalle banlieue francesi teatro di violenze fra poliziotti e discendenti degli immigrati: “Da noi non si è mai visto nulla del genere”. Aydin è invece convinto che superata l’enfasi della fasi referendaria i rapporti fra Ankara e Berlino torneranno al sereno. Un auspicio basato anche sulla crescente integrazione economica fra i due paesi. I numeri gli danno ragione: l’interscambio Germania-Turchia era pari a 23,5 miliardi nel 2006, a 32 mld nel 2012 e a 37,2 mld l’anno scorso, con la Repubblica federale saldamente prima nella graduatoria dei partner commerciali di Ankara e di quella degli investitori stranieri in Turchia.

 

Nelle ultime settimane molti tedeschi non hanno però apprezzato i cortei dei turchi pro Erdogan, e le adunate elettorali per il “sì” con la mezzaluna che sventolava fra i cori inneggianti alla pena di morte per i gulenisti traditori. Nel 2014 il Bundestag ha approvato il ddl voluto dalla Spd per facilitare, ad alcune condizioni, l’accesso alla doppia nazionalità per i figli degli immigrati. Del provvedimento hanno beneficiato molti turchi ma la Cdu è già pronta al dietrofront. Ancora lo scorso dicembre Merkel ha bloccato l’iniziativa proposta dai quadri del partito, ma secondo lo Spiegel la campagna antitedesca scatenata da Erdogan (e forse anche l’avvicinarsi delle elezioni) le starebbe facendo cambiare idea. Aydin spera che non sia così. “E’ una reazione populista anti turca: la legge era una buona legge. In Germania ci sono tanti cittadini non europei ai quali è concesso avere il doppio passaporto. Perché negare questo diritto ai turchi?”.

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