Donald Trump (foto LaPresse)

Trump è un grande affare per i media

Paola Peduzzi

I due grandi giornali americani bistrattatissimi dal presidente stanno vivendo una nuova primavera di abbonamenti, visibilità, investimenti e prestigio

Milano. Chi preferisci tu, il New York Times o il Washington Post? Da quando Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca i due grandi giornali americani bistrattatissimi dal presidente stanno vivendo una nuova primavera di abbonamenti, visibilità, investimenti e prestigio. Ci sono nuove assunzioni, team dedicati all’Amministrazione – il metodo “Spotlight” si sente ormai citato ovunque – e ritmi frenetici: l’Atlantic ha sottolineato che nella turbolenza trumpiana s’è creato un nuovo flusso di informazione, le “late-night breaking news”, un’edizione serale sulle ultime notizie e sulle ultime reazioni di giornata che parte dai social media e arriva poi sui siti. A Politico, ci sono due persone che si alternano giorno e notte per fare gli screenshot dei tweet presidenziali: così se Trump ne cancella uno, restano le prove. Si lavora molto di più e a orari non usuali, e i sabati che di solito erano lenti e propizi per le distrazioni ora sono diventati indaffarati e faticosi. Reince Priebus, chief of staff di Trump, ha detto che alla Casa Bianca si inizia alle 6.30 della mattina e si va avanti fino alle 11 di sera, in media, stabilendo così anche l’orario lavorativo dei reporter. Lo sforzo per i media è enorme – con un’aggravante, come ha spiegato Elisabeth Bumiller, il capo della redazione di Washington del New York Times: “Siamo in un territorio sconosciuto: non c’è mai stato un presidente così prima d’ora”. Ma le soddisfazioni ci sono: Ken Doctor di Newsonomics ha analizzato il cosiddetto “Trump Bump” spiegando che gennaio è stato un mese record per abbonamenti e pagine viste dei siti per tantissimi media, New York Times in testa, ma anche il Washington Post ha superato il record di novembre, che già era straordinario (soltanto le trasmissioni della mattina in televisione stanno registrando un calo, e in generale la stampa va meglio della tv, sempre in termini di “Trump Bump”).

 

La concorrenza tra il New York Times e il Washington Post è diventata di nuovo forte. David Remnick, direttore del New Yorker (che a gennaio ha segnato un record storico sugli abbonamenti), ha detto la sua sulla questione, lanciando ufficialmente la sfida tra le due corazzate e riesumando antiche rivalità: “Stiamo vedendo i risultati della prima grande guerra tra New York Times e Washington Post dai tempi del Watergate, ed è una gran cosa per il paese”, ha detto Remnick, che è un veterano del Washington Post e che ha aggiunto: “Temo che il New York Times non abbia quel che ha il Washington Post. La famiglia Sulzeberg non ha quel che ha Jeff Bezos, è su una strada più pericolosa”. Editori storici, nuovi disruptor, rivalità, affinità, un mondo nuovo da raccontare che assomiglia in parte a stagioni antiche e famose, come il Watergate certo, ma anche come i Pentagon Papers. Steven Spielberg dirigerà un film su questo celebre capitolo del rapporto tra governo e media: i Pentagon Papers furono pubblicati nel 1971 quando Daniel Ellsberg, uno dei membri di una task force segreta del Pentagono che aveva il compito di analizzare il coinvolgimento americano in Vietnam, fotocopiò tutti i documenti e li passò alla stampa. I Pentagon Papers erano un atto d’accusa contro l’Amministrazione Johnson, che aveva “sistematicamente mentito” agli americani sulla guerra in Vietnam.

 

Il film di Spielberg si intitolerà “The Post”, con Tom Hanks che interpreta il direttore del Washington Post Ben Bradlee, e Maryl Streep nei panni dell’editrice storica del giornale, Kay Graham. Non ci sono per ora altri dettagli, ma c’è già qualcuno che sottolinea che, in un momento in cui lo scontro tra New York Times e Washington Post è tornato effervescente, ritirare fuori la questione dei Pentagon Papers rischia di suonare come una scelta da tifoso, con quel titolo poi. I documenti dei Pentagon Papers furono pubblicati per la prima volta il 13 giugno del 1971, in un taglio basso della prima pagina del New York Times. Per tre giorni il quotidiano newyorchese continuò a insistere sulla storia finché non intervenne il dipartimento di Giustizia bloccando la pubblicazione di quel materiale con la motivazione: mette a rischio la sicurezza nazionale. Il New York Times unì le forze con il Washington Post e così poi, nonostante una sentenza della Corte suprema contro il governo che non era riuscito a dimostrare il pericolo per la sicurezza nazionale, i Pentagon Papers divennero un successo del Washington Post. Ma la storia è quella di una grande alleanza contro le censure del governo di due giornali in grande competizione: una storia molto attuale, molto oltre “The Post”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi