Marine Le Pen (foto LaPresse)

“La normalizzazione di Marine Le Pen non basterà a farla vincere”

David Allegranti

Intervista con Nicola Genga (Centro Riforma dello Stato)

Roma. Quanto è probabile un effetto Trump sull’Europa? Non è che alla fine in Francia vince Marine Le Pen? Nicola Genga, direttore del Centro per la Riforma dello Stato, sta per mandare in libreria una nuova edizione, ampliata e aggiornata, del suo libro “Il Front National da Jean Marie a Marine Le Pen. La destra nazional-populista in Francia” (Rubbettino), dove analizza l’ascesa della Le Pen. “L’analogia – dice al Foglio – va presa con le molle. Marine non può contare su un partito ramificato come il Gop che, pur turandosi il naso, ha sostenuto Trump. Negli Usa poi ci sono un bipartitismo e il sistema dei grandi elettori. In Francia la situazione è un po’ più complessa. I consensi che i sondaggi attribuiscono a Marine sono sufficienti per qualificarsi al ballottaggio, ma poi per arrivare all’Eliseo serve il cinquanta per cento più uno. Negli ultimi anni il Front national, partito gracile e sprovvisto di notabilato, è risultato la forza più votata nei primi turni delle regionali e delle dipartimentali. Ma poi ha fallito al ballottaggio. Il vecchio adagio dice che al primo turno si vota ‘per’ e al secondo ‘contro’. Ecco, è probabile che chiunque dovesse sfidare Marine Le Pen al ballottaggio vincerebbe per forza di inerzia, coagulando il rifiuto verso la candidata del Front. Anche se non nelle proporzioni con cui Chirac batté suo padre (82 a 18). Ovviamente attentati terroristici e ulteriori scandali che coinvolgessero candidati ‘di sistema’ cambierebbero il quadro, ma dovrebbe profilarsi davvero uno scenario apocalittico”.

 

La Le Pen, spiega Genga, “sta cercando di proseguire la cosiddetta ‘de-demonizzazione’, un processo di normalizzazione. Non che voglia diventare ‘come gli altri’, ma meno infrequentabile sì. Il sacrificio della figura paterna si deve a questo: evitare gli eccessi più nocivi e folkloristici dell’estremismo di destra. E infatti la sua strategia comunicativa si fonda su una tripla rimozione: nel programma elettorale non c’è traccia del cognome Le Pen, del FN e della fiamma tricolore. C’è invece una rosa blu: il fiore dei socialisti con il colore dei neogollisti. Si parla solo di ‘Marine’ e di contrapposizione patrioti-mondialisti, il suo slogan è ‘in nome del popolo’”. In questo senso, aggiunge Genga, “è illuminante lo spot dove la si vede al timone e la si sente dichiarare la propria passione per la Francia. Certo, la navigazione è perigliosa. Marine deve difendersi dalle accuse per il caso degli incarichi fittizi al Parlamento europeo e per la pubblicazione delle immagini dei massacri dell’Isis. Malgrado i tentativi di non farsi scambiare più per il diavolo, un po’ di zolfo c’è ancora, e fa gioco a Marine”. Resta da capire, però, quanto incideranno gli errori degli avversari della Le Pen.

 

“Sembra quasi ce la stiano mettendo tutta. Per molti versi le candidature di Hamon e Mélenchon si elidono, e chissà che l’appoggio di Bayrou a Macron non possa rivelarsi un boomerang per quest’ultimo, come anche il fatto di essere percepito come successore dell’hollandismo, anche perché alcuni socialisti sono tentati di seguire il leader di En Marche. E poi c’è il Penelopegate. Comunque, le presidenziali sono l’unica elezione che i francesi prendono davvero sul serio. E a votare ci vanno in massa, con percentuali di affluenza attorno all’80, a differenza di quanto accade alle legislative (55-60) o alle europee, regionali e locali, a cui partecipa anche meno del 50 per cento dei francesi. Fatico a immaginare una mobilitazione di massa per dare la maggioranza assoluta al FN, nonostante tutto”. Ma François Fillon, candidato dei Républicains, è ormai spacciato?

“Non se la passa benissimo. Quando era il primo ministro di Sarkozy era considerato la faccia triste ma competente della destra. L’affaire in cui è incappato è spiazzante, ma la risposta di piazza di domenica è interessante. Non escludo che la maggioranza silenziosa del gollismo popolare e conservatore, quella che scese in strada contro il ’68, nell’84 per le scuole private e che di recente ha animato la Manif pour tous, lo sostenga comunque. E non escluderei una dinamica simile a quella dell’elettorato italiano, che votava Berlusconi nonostante i processi”. Quello degli incarichi fittizi poi “è un topos dei rapporti giustizia-politica in Francia. Anche Juppé ne è stato rimasto coinvolto insieme a Chirac, ed è stato pure condannato, ma la sua figura politica non ne è uscita appannata più di tanto. Entro il 17 dovranno prendere una decisione. Oltre ai giudici, Fillon deve temere Sarkozy e i suoi compagni di partito, che spingono per la candidatura di François Baroin. Un po’ come nella sinistra italiana, nel gollismo francese il primo nemico è sempre quello interno”.

David Allegranti

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.