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Il complotto sui brogli digitali degli hacker russi

Il team di Hillary fa girare voci di anomalie nel corso delle elezioni dell'8 novembre. Una cospirazione per superare l’urlo “not my president”.

New York. La settimana scorsa, dopo una conversazione telefonica con un gruppo di esperti informatici, il team della campagna elettorale di Hillary Clinton, capeggiato da John Podesta, ha preso a spargere voci su possibili brogli cibernetici in Wisconsin, Pennsylvania e Michigan, tre stati decisivi che Donald Trump ha vinto con distacchi minimi. L’ipotesi si basa sull’osservazione che nelle contee con il solo voto digitale la candidata ha ottenuto sensibilmente meno consensi di quelle limitrofe dove invece il voto è rimasto cartaceo. Ci sono tutti gli elementi per tratteggiare una teoria del cybercomplotto che, dopo tutto il trafficare di hacker nelle mail democratiche, non può che puntare in direzione del Cremlino. Forse la squadra di Hillary non ha mai davvero accarezzato l’idea di poter ribaltare l’esito delle elezioni per via informatica, ma l’hashtag #audittheelection dev’essere apparso più pregnante di #notmypresident, lo slogan dell’indignazione permanente, e le voci dell’indagine interna sono state captate e riproposte in modo estremizzato dal magazine New York. Gli attivisti informatici che hanno allertato la campagna democratica, ha scritto Gabriel Sherman, hanno fatto notare che “la squadra dei Clinton non ha molto tempo a disposizione per contestare il risultato delle elezioni”. L’ipotesi è stata in breve smontata da diversi esperti di statistica fra cui Nate Silver, il guru dei numeri elettorali che quest’anno ha sbagliato le previsioni ma non di un abisso, come invece amano raccontare quelli che sperano di ricavare un mezzo gaudio dal male comune. Silver dice che l’analisi del voto nelle contee incriminate secondo altri parametri, senza concentrarsi cioè sul voto cartaceo contro quello digitale, restituisce risultati in linea con le aspettative, con le serie storiche e con le contee confinanti.

Al centro di questo sommovimento per il riconteggio delle schede c’è Alex Halderman, direttore del centro per la sicurezza informatica della University of Michigan, il quale ha descritto su Medium le sue osservazioni, lamentando che l’articolo che lo tirava in ballo includesse “la descrizione delle mie idee fatta da qualcun altro”. Halderman non pensa che le elezioni siano state falsate da un attacco cibernetico teso a favorire Donald Trump. Pensa che esistono anomalie nei flussi di voto abbastanza rilevanti da giustificare un controllo, tenendo conto che le capacità tecnologiche di oggi rendono possibile la penetrazione nel sistema elettorale di spie informatiche abbastanza accorte. La sua convinzione è che un controllo non troverà nulla di anomalo, ma perché non tentare? Neera Tanden, la pretoriana più agguerrita di Hillary, conferma via Twitter: “Lettura interessante. Alex Haldeman è una persona seria”, ha scritto Tanden, dimenticandosi una lettera del cognome della persona seria che stava lodando. Quando le voci ragionevoli sull’opportunità di un limitato riconteggio hanno incontrato l’indignazione democratica per Trump si sono trasformate in cospirazioni sulla longa manus di Putin. Susan Hennessey, esperta di sicurezza del Lawfare Blog, ha riportato la riflessione nel suo ordine naturale: “Continuo a vedere variazioni sul tema ‘importanti esperti di sicurezza hanno le prove che le elezioni sono state hackerate’ ma questo è falso. Dovrebbe essere piuttosto così: ‘Esperti di sicurezza notano caratteristiche di queste elezioni che illustrano il motivo per cui, in generale, dovremmo avere più spesso riconteggi e controlli”. Niente brogli né complotti, dunque, soltanto un sistema elettorale che è per definizione vulnerabile.