I data center di Alibaba, gigante informatico cinese (foto LaPresse)

I leak, o scoprire l'acqua calda

Eugenio Cau
Piccola ricognizione dei leak-scoop degli ultimi giorni. C’è anche la Russia, per una volta hackerata. Hillary Clinton ha un problema con le email, è vero. Ma in quelle di Podesta si confermano solo cose già risapute.

Siamo andati a frugare un po’ tra le mail hackerate, ecco quel che abbiamo trovato. Avvertimento: non ci sono “smoking gun”, per ora.

 


 

 

Un carotaggio nelle mail di Podesta

 

Hillary Clinton, la candidata democratica alla Casa Bianca, è perseguitata dalle email. Gli scandali dei suoi server privati usati quando era segretario di stato sono stati un problema nel corso di tutta la campagna elettorale, e da qualche settimana Wikileaks ha iniziato a riversare su internet, a puntate, decine di migliaia di email di John Podesta, il capo della sua campagna. L’organizzazione guidata da Julian Assange ha promesso di pubblicare da qui alle elezioni 50 mila messaggi email, e finora ne ha pubblicati circa 33 mila. L’ultimo troncone di comunicazioni è arrivato soltanto ieri, ed è la diciannovesima infornata di mail trafugate. Una tale mole di comunicazioni riservate ad altissimo livello all’interno della campagna elettorale di un candidato presidenziale farebbe tremare anche il più scafato operatore politico, ma finora – nonostante il rovistare ininterrotto di centinaia di giornalisti che interrogano in tutti i modi il database di Assange per trovare materiale compromettente – al netto di qualche pruderie nessun grosso scandalo è uscito dalla gigantesca mole di mail.

 


Hillary Clinton (foto LaPresse)


 

Il fatto, ha notato Jeff Stein, giornalista di Vox che ha fatto forse il più completo carotaggio del database (fatto curioso: appena una settimana fa, quando Stein ha pubblicato il suo articolo, le mail erano circa ventimila; oggi se ne sono aggiunte diecimila in più, ma il risultato non cambia), è che la percezione che gli elettori hanno di Clinton è già piuttosto bassa. La candidata presidenziale è tra i meno amati della storia americana recente, superata in disprezzo solo dal suo avversario repubblicano Donald Trump, e le presunte rivelazioni di Wikileaks – l’assiduità di Clinton con il compromesso politico, la segretezza dei processi decisionali, la vicinanza ai banchieri di Wall Street, l’opacità della Clinton Foundation – sono elementi conosciuti da anni e sui quali gli elettori si sono già fatti un’idea. Le mail di Podesta non fanno che confermarli con toni più vividi, ma niente più, almeno per ora.

 

Stein divide il corpus delle mail di Podesta in quattro grandi “storyline”, in quattro categorie. La prima riguarda la Fondazione Clinton, guidata da Bill e dalla figlia Chelsea in cui la distinzione tra lavoro privato e attività pubblica dei membri della dinastia, specie Hillary, è spesso ambiguo. In una mail di Podesta, per esempio, si cita una revisione privata fatta da uno studio di avvocati newyorchesi in cui si rivelava il pericolo (non confermato) che molti dei donatori della fondazione si aspettassero di ottenere vantaggi pubblici dalle loro donazioni, e dunque usassero l’attività benefica per oliare i meccanismi dell’Amministrazione. Tra questi, funzionari del Qatar che avrebbero promesso a Bill una donazione di un milione di dollari (non è possibile confermare se la donazione sia mai stata versata).

 

La seconda categoria di email riguarda la vicinanza di Clinton ai banchieri di Wall Street e ai finanziatori milionari della sua campagna. Anche qui: niente di nuovo, e niente su cui Bernie Sanders non abbia fatto una feroce campagna durante le primarie democratiche. Durante tutto il processo di scelta del candidato, Sanders chiese a più riprese la pubblicazione dei testi dei lucrosi discorsi che Clinton ha tenuto in varie occasioni a banchieri e capitani d’industria. Le mail di Podesta ne rivelano gli spezzoni più incriminanti, come uno in cui Clinton dice che i banchieri sono i più adatti ad autoregolare il proprio settore, o un altro in cui ammette che la legge Dodd-Frank è stata approvata per “ragioni politiche”. Niente che il sanderista medio non immaginasse, ma soprattutto niente nemmeno delle incredibili genuflessioni al potere finanziario che i detrattori denunciavano.

 

Una terza categoria di email riguarda il modo d’operare della macchina elettorale di Hillary Clinton. In infinite catene di email, i più importanti consiglieri della candidata discutono i problemi di policy, le prese di posizione sui fatti del giorno, le proposte strategiche per il futuro dell’America, e a volte la loro principale preoccupazione non è trovare la soluzione migliore, ma quella con le ricadute politiche più convenienti. Allo stesso modo, in un troncone recente di leak si scopre che Neera Tandem, capo del think tank clintoniano Center for American Progress, ha accusato la candidata di aver nascosto i suoi server privati quando era segretario di stato perché sperava “di farla franca”. Così, nell’universo Clinton una proposta o una mossa strategica può essere valutata non nel merito, ma in base alle conseguenze che essa avrebbe sull’elettorato durante la campagna per le primarie o alle elezioni generali. Questa però è una preoccupazione di tutte le campagne politiche, e soprattutto non è sempre vero per Clinton. In più di un caso, al contrario, il team Hillary discute in maniera accesa su princìpi e questioni ideali per trovare la policy migliore.

 

Infine ci sono i gossip e le maldicenze. Qui, le mail di Podesta sono simili alla corrispondenza privata tra i colleghi di qualunque altro ufficio, con la differenza che le persone criticate, a volte in maniera acida, sono senatori, potenti operatori politici e governatori. Ma appunto, scagli la prima pietra chi non ha mai fatto gossip con i colleghi. Alla fine della disamina delle infinite mail, il ritratto che ne esce è quello di una candidata avvezza al segreto, troppo navigata politicamente per non aver fatto compromessi onerosi, attorniata da collaboratori abituati a pensare alle conseguenze politiche oltre che che ai princìpi e tutto sommato un po’ stronza. Wikileaks propone però nuove, incredibili rivelazioni di qui alle elezioni.

 

Nella testa di Surkov (quindi di Putin)

 

Un gruppo di hacker ucraini, conosciuto come “Cyber Hunta”, ha pubblicato martedì migliaia di email private di Vladislav Surkov, l’alto dirigente russo definito l’“eminenza grigia” del Cremlino e tra i più stretti e longevi consiglieri del presidente, Vladimir Putin (lo segue dal 1999). Autore di alcune canzoni rock e grande fan della Beat generation americana, Surkov è considerato una delle menti  di questo ventennio e lui stesso si definisce “l’autore del nuovo sistema politico russo”: è stato vice capo di gabinetto della prima amministrazione Putin, vicepremier al tempo di Medvedev, e soprattutto ideatore dell’ideologia della “democrazia sovrana” che oggi domina la politica russa, in cui lo spazio per la libertà d’opinione è limitato dal controllo forte del leader. Animatore di molti gruppi politici di giovani russi, oggi Surkov è consigliere personale di Putin sugli affari russi nelle aree separatiste di Abkhazia e Ossezia del sud, e soprattutto sulla questione dell’Ucraina. Nei primi mesi del 2014, quando gli Stati Uniti pubblicarono la prima lista di sanzioni a personaggi legati al Cremlino dopo l’annessione della Crimea alla Russia, il nome di Surkov appariva tra i primi. Per questo la pubblicazione delle sue email personali – SurkovLeaks – ha generato un enorme interesse, anche considerando il fatto che a oggi, eccezion fatta per qualche mezza ammissione di Putin, la posizione ufficiale russa nega in gran parte il coinvolgimento di soldati di Mosca nell’annessione della Crimea e nella guerra civile che ancora si protrae a bassa intensità nell’oriente ucraino.

 

L’autenticità delle mail pubblicate dalla “Cyber Hunta” è stata attestata dai servizi di sicurezza ucraini, il cui entusiasmo non è perfettamente attendibile, ma ieri è stata riconfermata da analisti di terze parti. Inizialmente, gli hacker avevano pubblicato file pdf e screenshot della casella di email di Surkov, tutto materiale facilmente falsificabile, ma in seguito hanno rilasciato poco meno di un gigabyte di file originali delle email, complete di mittenti, destinatari e metadata molto dettagliati, che sono molto più difficili da falsificare con coerenza. La casella di posta hackerata è quella ufficiale con dominio del governo russo, [email protected], e sembra gestita in gran parte da due segretarie o assistenti, Masha e Yevgenia. Buona parte delle email pubblicate è composta da briefing su azioni di governo e sulle aree di interesse di Surkov (Abkhazia, Ossezia del sud, Moldavia, Ucraina), più un sacco di altre mail su eventi, appuntamenti, burocrazia. In una parola, la stragrande maggioranza delle email della casella di posta di Surkov è normale amministrazione per nulla compromettente, e questo, si legge in un articolo dell’Atlantic Council che ha fatto una disamina completa di tutti i documenti, è un buon segno: i veri leak hanno un rapporto alto tra mail non interessanti (tantissime) e mail interessanti, esattamente come succede in tutte le caselle di posta.

 

Assume particolare interesse una mail del giugno 2014 in cui Denis Pushilin, ex capo del soviet del popolo dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, nell’oriente ucraino, fa l’elenco degli ultimi caduti nella guerra civile, citando almeno un soldato russo, la cui presenza a Donetsk era stata negata dal Cremlino (esiste la possibilità, tuttavia, che il soldato in questione fosse un veterano fuori servizio). Un’altra mail interessante è una lettera inviata a Surkov in un giro di corrispondenza di cui fa parte anche Vitaly Leybin, direttore del magazine Russian Reporter, e in cui si apportano “correzioni” al testo di un presunto appello degli abitanti del Donbass taglieggiati dall’esercito ucraino. Quell’appello, nei giorni successivi, sarà pubblicato su Russian Reporter e poi pompato su tutti i siti di propaganda del Cremlino, senza che si faccia menzione del fatto che il testo era stato quanto meno approvato e manipolato dalle più alte cariche del governo di Mosca. In un’altra mail, Pushilin invia a Surkov il resoconto completo delle spese vive del press center del ministero dell’Informazione della repubblica di Donetsk.

 

Ma il documento più interessante è forse un pdf inviato a Surkov dal Marshall Group, think tank russo ultranazionalista accusato di sostenere i separatisti ucraini. Nel documento il Marshall group “raccomanda” a Surkov alcuni personaggi per le più importanti cariche del governo della repubblica separatista di Donetsk, tra cui Aleksandr Zakharchenko come primo ministro, Igor “Strelkov” Girkin come ministro della Difesa e Denis Pushilin come capo del soviet del popolo. Tutti questi personaggi sono stati in effetti nominati: peccato soltanto che si trattasse di cariche elettive, per le quali si sono svolte “regolari” consultazioni.
Forse perché provenienti da una mail ufficiale, o forse perché le email non sono stata pubblicate tutte (poco più di duemila sono un numero piuttosto limitato per un alto ufficiale governativo con anni di carriera alle spalle), le rivelazioni dei SurkovLeaks non estendono di molto lo spettro di informazioni a cui l’opinione pubblica mondiale ha già accesso da tempo: la guerra in Ucraina è stata fomentata e indetta dai russi, che hanno avuto un ruolo guida anche nella gestione delle cosiddette “repubbliche marionetta” nell’oriente ucraino.

 

May e la Brexit: la registrazione

 

Il 26 maggio scorso, poco meno di un mese prima del referendum sulla Brexit, l’allora ministro dell’Interno Theresa May (oggi è il premier del Regno Unito) parlò off the record a un incontro di banchieri d’affari organizzato da Goldman Sachs. Il Guardian due sere fa ha ottenuto la registrazione del suo intervento, di circa un’ora, e l’ha pubblicata. Allora la May era coinvolta nella campagna per il “remain”: faceva parte di quel gruppo di ministri del governo di David Cameron che non tradirono la linea tiepido-europeista del premier e che fecero campagna assieme a lui. Già allora, durante la campagna elettorale, la May era considerata una recalcitrante sostenitrice della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, come hanno raccontato in seguito molti collaboratori del premier Cameron defenestrato dal referendum.

 

Per la May non si trattava tanto di una questione ideologica, quanto di calcolo politico preciso (e azzeccato, tra l’altro). In caso di vittoria del “remain”, la May sarebbe rimasta tra i vincitori e i fedeli di Cameron; in caso di sconfitta si sarebbe potuta candidare come la leader della riunificazione, l’unica in grado di garantire una riappacificazione interna al Partito conservatore dilaniato dalla questione europea. Come si sa, ha avuto ragione lei. Prima del referendum però, come si è detto, la tattica di Theresa prevedeva una pacata critica della Brexit, che è esattamente quel che risulta dalla registrazione-scoop ottenuta dal Guardian: “Le argomentazioni economiche sono chiare, facciamo parte di un blocco commerciale da 500 milioni di persone e questo è importante per noi. Come dicevo prima, molte persone investiranno nel Regno Unito perché il Regno Unito è in Europa. Se non fossimo in Europa, penso che alcune aziende e compagnie si chiederebbero: dobbiamo forse sviluppare una presenza sul continente europeo più che in Inghilterra? Per questo dico che ci sono vantaggi precisi in termini economici” nel restare nell’Ue. May aggiunge anche che essendo membri dell’Ue ci sono pure “vantaggi in termini di sicurezza”. Insomma, la May, il 26 maggio del 2016, era tiepidamente contraria alla Brexit.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.