Usa 2016, Hillary Clinton in campagna elettorale (foto LaPresse)

“Vota Hillary”. Così i media americani sono diventati fazione politica

Daniele Scalea
I giornalisti statunitensi dipingono la sfida Clinton-Trump come una lotta tra democrazia e dittatura. Ma mai come in queste elezioni i media sono stati unilaterali nell'appoggiare un candidato. Wikileaks ne rivela le collusioni con Hillary.

Negli Stati Uniti il giornalismo è tradizionalmente considerato una parte costitutiva della sua democrazia. Thomas Jefferson, padre costituente e terzo presidente, scrisse di preferire “i giornali senza un governo” a “un governo senza giornali”. Da allora si è creata un'autentica mistica sul ruolo dei media, “cani da guardia” dei cittadini contro gli abusi della politica. Ma troppo spesso i pretesi watchdogs sembrano essersi trasformati in cagnolini da compagnia dei potenti.

 

I media a livello mondiale, seguendo le dinamiche del libero mercato prima ancora che precisi disegni politici, si stanno aggregando fino a creare pochi oligopoli, solo in piccola parte controbilanciati dall'esplosione dell'informazione via internet – che, proprio per la sua sterminata pluralità, non può competere con la pervasività dei canali televisivi e radio e delle testate giornalistiche.

 

La questione è globale, ma negli Stati Uniti è particolarmente visibile. All'inizio degli anni Ottanta, il 90 per cento dei media era controllato da cinquanta società. In fondo, già poche per un paese di allora 230 milioni di anime; ma un paradiso di pluralismo se confrontato con la situazione odierna, in cui la stessa quota di media (9 su 10) è in mano a sole sei mega-corporazioni: le cosiddette Big Six (CBS, Comcast, News Corporation, Time Warner, Viacom, Walt Disney). Questi oligopoli mediatici non si limitano a scrutinare e a raccontare la politica: la finanziano anche. Ad esempio, Comcast è nota per essere una delle società americane che destina una quota maggiore del proprio bilancio ai finanziamenti politici e all'attività di lobbying.

 



Reporter al lavoro nel media center durante il secondo dibattito tra candidati delle presidenziali americane alla Washington University di St. Louis, Missouri (foto LaPresse)


 

 

I media scelgono Hillary Clinton

 

Secondo i dati raccolti dal Center for Responsive Politics, nel 2016 il principale beneficiario politico dei fondi di Comcast (con un contributo di 125.949 dollari), News Corporation (154.412 dollari), Time Warner (337.076 dollari) e Walt Disney (176.862 dollari) è stata Hillary Clinton. Contributi assai meno generosi sono andati agli altri candidati alle primarie democratiche e repubblicane, ma Trump ha ricevuto appena 7.320 dollari da News Corporation e 2.000 da Walt Disney, zero dagli altri. La predilezione delle società proprietarie per Hillary Clinton sembra essersi trasmessa pure alle testate.

 

Donald Trump ha ricevuto l'endorsement di una sola testata tra le Big Six, ossia il New York Post di News Corporation, ed esclusivamente verso la chiusura delle primarie. Il New York Post non ha reiterato l'appoggio per le elezioni presidenziali, e anzi da allora ha cominciato a pubblicare sempre più articoli critici verso Trump. Gli unici veri endorsement per la Presidenza sono arrivati così da Santa Barbara News-Press, St. Joseph News-Press e Las Vegas Review-Journal: solo quest'ultimo è una testata di rilievo e ha atteso fino al 23 ottobre prima di pronunciarsi. Persino il libertario Gary Johnson ha fatto molto meglio di Trump, ottenendo 6 endorsement, incluso quello del Chicago Tribune, che ha picchi di 770 mila lettori. Hillary Clinton ha fatto però la parte del leone, ottenendo 132 endorsement, inclusi quelli di New York Times, Los Angeles Times, New York Daily News, Denver Post, Washington Post, che presi assieme possono arrivare a vendere quasi quattro milioni di copie in un giorno. Addirittura nove testate hanno pronunciato un endorsement al contrario: hanno cioè invitato i propri lettori a votare per chiunque ma non Donald Trump. Tra esse c'è Usa Today, il secondo giornale più letto negli Stati Uniti.

 

Anche nel 2008, Barack Obama ricevette dai giornali molti più endorsement del rivale repubblicano Mitt Romney, ma allora il rapporto era di circa 2 a 1. Quest'anno la democrazia americana ha sperimentato una nuova dimensione, in cui la stampa si è schierata pressoché all'unanimità contro un preciso candidato. Ora: è sicuramente un diritto dei giornalisti quello di sostenere liberamente una parte o l'altra, ma il fatto che tutti scelgano di farlo per la stessa, fa dubitare della tenuta del pluralismo nei media. Tanto più che il candidato osteggiato da gran parte della stampa non è uno marginale, bensì il candidato del Gop, accreditato nei sondaggi da un consenso oscillante tra il 35 per cento e il 40 per cento. Dunque, con un forte scollamento tra l'opinione popolare e quella “pubblica” rappresentata dai media.

 



Presidenziali USA: il media center durante il secondo dibattito Trump-Clinton (foto LaPresse)


 

Una copertura poco equilibrata

 

La questione sarebbe già meritevole di riflessione così; ma lo diviene molto di più se la preferenza politica fa venir meno l'oggettività giornalistica, che dovrebbe rimanere un punto fermo della sua credibilità e ruolo democratico. Molti hanno messo in dubbio che i media stiano trattando in maniera equanime e oggettiva Donald Trump. A cominciare dai primi due dibattiti televisivi, in cui i conduttori si sono mostrati più aggressivi col candidato repubblicano, interrompendolo più spesso, mettendo spesso in dubbio le sue affermazioni, facendogli domande più insidiose. Nel primo dibattito, il conduttore Lester Holt ha fatto quindici domande a Trump e solo due alla Clinton; di queste, le hit questions (domande per incalzare l'intervistato) sono state quattro a Trump e zero alla Clinton.

 

In occasione del secondo dibattito, i due conduttori Anderson Cooper e Martha Raddatz, hanno subito posto alla Clinton e a Trump le domande sugli argomenti per loro più compromettenti; ossia, rispettivamente, la controversia sulle e-mail e quella sui commenti riguardo le donne. Ma se la Raddatz si è limitata a chiedere alla Clinton se non giudicasse “extremely careless” l'aver cancellato 33 mila e-mail soggette a mandato di consegna, la domanda di Cooper a Trump era invece assertiva, liquidando già la sua risposta (“chiacchiere da spogliatoio”) per affermare che si era reso colpevole di “aggressione sessuale”; il quesito era un accusatorio: “Se ne rende conto?”.

 

Ad alcuni è apparsa anche ingiustificata la sproporzione di tempo che i media hanno dedicato alla registrazione rubata a Trump, e poi alle improvvise accuse di molestie da parte di alcune donne, rispetto alle concomitanti e-mail concernenti la Clinton rese pubbliche da Wikileaks. Quest'ultimo fatto ha trovato poco spazio nei media americani, e quasi sempre per liquidarlo come un complotto russo teso a favorire Trump. Tanto che Trevor Timm, sulle pagine del britannico Guardian (non sospettabile della minima simpatia per Trump), ha criticato i colleghi americani: “Se le fughe di notizie su Trump sono Ok, e quelle sulla Clinton no, allora c'è un problema”.

 

Giornalisti al servizio della Clinton

 

Forse se i giornalisti americani ignorano i contenuti delle rivelazioni di Wikileaks, è anche perché c’è materiale in grado di gettare forte discredito sulla loro categoria. Dalla corrispondenza privata di John Podesta, a capo della campagna presidenziale di Hillary Clinton, si scopre come un numero significativo di giornalisti di primo piano siano andati oltre il simpatizzare per la candidata democratica, mettendosi al servizio delle sue esigenze in spregio dell'etica professionale. Di seguito ci sono solo alcuni esempi di ciò che è stato trovato nelle “Podesta e-mails”.

 

- Il 13 gennaio 2015 Nick Merrill, dell'ufficio stampa della Clinton, parla di Maggie Haberman, allora cronista di Politico mentre oggi segue la campagna elettorale per il New York Times: “Abbiamo avuto una relazione molto buona […] nel corso dell'ultimo anno. Ha preparato delle storie per noi in precedenza e non siamo mai rimasti delusi”.

 

- Il 24 giugno 2015 sempre Nick Merrill, quando la Commissione d'inchiesta sui fatti di Bengasi chiede informazioni circa le email della Clinton cancellate, riferisce che al Dipartimento di Stato “stanno pensando di piazzare la storia con un amico a AP [Associated Press, ndr] (Matt Lee o Bradley Klapper), che esponga ciò prima che la maggioranza in seno al Comitato abbia possibilità di capire cos'ha tra le mani [...]”.

 

- Il 7 luglio 2015 Mark Leibovich, capo-redattore nazionale del New York Times, ha una corrispondenza con Jennifer Palmieri, direttrice della comunicazione nella campagna della Clinton. L'oggetto sono alcune citazioni da una precedente intervista da includere in un suo profilo. Leibovich scrive docilmente alla Palmieri che “puoi porre il veto su ciò che non vuoi”.

 

- Il 12 marzo 2016 Donna Brazile, presidente del Comitato Nazionale Democratico, alla vigilia di un dibattito tra la Clinton e Sanders invia in anticipo alla Palmieri una delle domande che saranno poste ai candidati dalla CNN: sia l'oggetto (“Di tanto in tanto ottengo le domande in anticipo”) sia il commento (“Questa è quella che mi preoccupa per HRC [Hillary Rodham Clinton, ndr]”) fanno apparire disperata la sua successiva smentita dopo che l'email è stata resa pubblica.

 

- John Harwood, capo-corrispondente a Washington per la CNBC ed editorialista per il New York Times, modera un dibattito tra i candidati alle primarie in cui si mostra particolarmente caustico con loro. In una fitta corrispondenza con Podesta, gli dà consigli su quale rivale repubblicano può essere per loro più pericoloso (8 maggio 2015) e si vanta per come in Tv ha maltrattato Donald Trump (8 dicembre 2015).

 

A inizio anno Gawker.com ha ottenuto, grazie al Freedom of Information Act, una serie di e-mail  scambiate tra Philippe Reines (vice-assistente della Clinton al Dipartimento di Stato) e i giornalisti. Questi documenti confermano la sudditanza di diversi tra loro verso Hillary Clinton. Ecco alcuni esempi.

 

- Il capo-redattore politico di Politico, Michael Allen, prepara un'intervista a Chelsea Clinton fornendo le domande in anticipo e promettendo che “non ci saranno sorprese”.

 

- Kenneth Vogel, cronista di Politico, sottopone al Comitato Nazionale Democratico un articolo prima ancora d'inviarlo alla propria redazione, dandogli la possibilità di richiedere eventuali correzioni.

 

- Mark Ambinder del Atlantic ottiene in anteprima la trascrizione di un discorso di Hillary Clinton, ma in cambio accetta di descriverlo nel proprio articolo con l'aggettivo “muscolare” richiestogli da Reines.

 

 

Sulla democrazia in America

 

Il presidente Barack Obama in questi giorni è intervenuto a gamba tesa nella campagna elettorale, arrivando ad affermare che in caso di vittoria di Trump la democrazia sarebbe a rischio. La suggestione è stata prontamente ripresa dai vari media che sostengono la Clinton. Su The Week Damon Linker si chiede se l'America si riprenderà mai dalla “tinta fascista” che Trump ha dato alla sua politica. Sul New York Times Roger Cohen paragona Trump a Hitler. Robert Kagan dalle colonne del Washington Post descrive Trump come “la più pericolosa minaccia alla democrazia statunitense dalla Guerra Civile”.

 

È lecito censurare Trump, anche considerarlo un pericolo per la nazione. Ma viene da chiedersi se la concentrazione oligopolistica dei media in corporazioni che finanziano alcuni politici, il loro schierarsi unanimemente a sostegno di un candidato presidenziale – con cui diversi giornalisti formalmente indipendenti in realtà cooperano da embedded alla campagna elettorale – non sia, a sua volta, una minaccia alla democrazia tanto quanto lo sia Donald Trump, se non di più. Il giornalismo ha smesso di essere quel medium tra potere e società elogiato da Jefferson, ed è divenuto, esso stesso, parte d'una fazione politica?

 

Daniele Scalea, analista geopolitico, è direttore generale dell'IsAG.