La scrittrice americana Harper Lee

Harper Lee non è mai stata così prolifica come da quando è morta

Antonio Gurrado
Un altro “inedito” tra marketing e idealizzazione: un’autrice morta dopo cinquant’anni di silenzio è una miniera d’oro. Perché continuare a scovare inediti della scrittrice è un modo di serializzarla, di ammettere che per continuare a vendere deve continuare a scrivere.

Harper Lee non è mai stata così prolifica come da quando è morta. E’ stata spacciata per scoperta di un inedito l’attribuzione di un articolo non firmato, apparso nel 1960 sulla rivista del Fbi Grapevine, sul caso cui Truman Capote dedicò “A sangue freddo” dopo sei anni di ricerche e stesure: lo sterminio della famiglia Clutter a Garden City, in Kansas. Ci sono prove filologiche sufficienti all’attribuzione, per quanto lo stile sia ben distante dallo standard di Harper Lee, e ovviamente la scoperta servirà da grimaldello a chi conta di dimostrare una sua maggiore partecipazione all’indagine letteraria sul caso, in cui risultava mera assistente di Capote. Altrettanto ovviamente però l’articolo, che riapparirà sul nuovo numero di Grapevine, pubblicizza il fatto che “Truman Capote, celebre romanziere, drammaturgo e reporter, è stato inviato dal New Yorker a fare un pezzo in tre puntate sul delitto, che verrà pubblicato in volume da Random House”; l’immediata aggiunta “Capote è l’autore di Colazione da Tiffany” ammanta il tutto dell’allure della marchetta.

 

Perché allora dovrebbe essere importante? La scoperta è dovuta a Charles J. Shields, autore di una biografia della scrittrice pubblicata nel 2006 e bisognosa di nuova pubblicità in vista della riedizione aggiornata. Un inedito (anche se non firmato, anche se non inedito) è ideale perché ottempera all’istanza di serializzazione con cui l’editoria ha cercato di spremere Harper Lee nell’anno che corre dalla scoperta del manoscritto di “Va’, metti una sentinella” alla commemorazione post mortem. La saturazione del mercato editoriale implica che i libri cadano rapidamente nell’oblio: godono di visibilità per dodici mesi se va bene, e gli editori devono escogitare un modo per tenerli in vita. Questa tendenza assecondata dalle saghe narrative (da “Harry Potter” a “Cinquanta Sfumature”) ha portato Hillary Kelly a proporre sul Washington Post di pubblicare i romanzi a puntate per garantire maggiori vendite: pensate cosa sarebbe successo, si è chiesta, “se Harper Collins avesse centellinato l’attesissimo secondo romanzo di Harper Lee su un lasso di sei mesi”.

 

Continuare a scovare inediti di Harper Lee (altri seguiranno, scommettiamo?) è un modo di serializzarla, di ammettere che per continuare a vendere deve continuare a scrivere: un’autrice morta dopo cinquant’anni di silenzio è una miniera d’oro. Come notava Gaby Wood nel coccodrillo sul Telegraph, “se Harper Lee fosse morta un anno prima, avremmo elogiato la scrittrice che era anziché quella che avrebbe potuto essere”. Il manoscritto del secondo romanzo ha portato alla luce un’autrice potenziale dall’eterno presente, giungendo al paradosso di renderla paladina dei diritti civili nonostante che nella “Sentinella” Atticus Finch diventi un razzista simpatizzante del Ku Klux Klan. E se non riuscite a indovinare chi possa essere la vittima predestinata di quest’Harper Lee ideal eterna, sappiate che a fine marzo sono state messe all’asta ventinove lettere piuttosto insignificanti in cui si lamentava dei fan che le chiedevano copie autografate (uno, volendo guardare il film con Gregory Peck, le domanda direttamente un videoregistratore) e supplicava i destinatari di non diffondere la corrispondenza su internet. Sono state battute a più di trentamila dollari, di cui quasi quattromila solo per la missiva in cui Harper Lee scriveva: “La peggior punizione che Dio possa riservare a questa peccatrice è di far eternamente risiedere il suo spirito nel Taj Mahal di Donald Trump ad Atlantic City”.

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