Il presidente cinese Xi Jinping con il suo omologo iraniano Hassan Rouhani, durante un incontro dello scorso gennaio (foto LaPresse)

Perché per capire il medio oriente ora è più utile osservare la Cina piuttosto che la Russia

Eugenio Dacrema
Pechino prova a colmare il vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti nel Mediterraneo e nei deserti arabi, mentre aumentano le incertezze di Mosca.

Se è vero, come sostengono i politologi realisti, che tutto ciò che conta nelle relazioni internazionali sono gli equilibri di potere, la storia dimostra che però esistono stili assai differenti per perseguirli. Lo possiamo vedere oggi in medio oriente in modo particolarmente lampante. In questa tormentata regione c’è una potenza tradizionalmente egemone, gli Stati Uniti, che ormai da anni sta cercando di sganciarsi per dedicarsi ad aree del mondo (il Pacifico) assai più strategiche oggi per i suoi interessi. Nonostante ci provi ormai dall’inizio dell’Amministrazione Obama, gli Stati Uniti sono costantemente risucchiati  dalle parti del mondo arabo per mettere una pezza su questa o quell’altra crisi, pezze messe controvoglia che spesso finiscono per peggiorare la situazione.

 

Ma, nonostante tutto, gli Stati Uniti se ne stanno andando dal Mediterraneo e dai deserti arabi, lasciando un vuoto di potere che deve essere riempito quanto prima per evitare ulteriori destabilizzazioni. E’ un vuoto che hanno provato a riempire le potenze locali (la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran) ma senza trovare una nuova quadra “post-americana” che impedisse destabilizzazioni devastanti come quella siriana. Ci sta riuscendo, apparentemente con molto più successo, la Russia di Putin. Una trentina di caccia e qualche mese di bombardamenti sembrano aver magicamente riportato alla ragione le parti del conflitto civile siriano. Forse. Ma staremo a vedere quanto la tregua reggerà e quanto un eventuale accordo sul terreno si trasformerà in una realtà duratura o in una pace di cartapesta messa a coprire una tensione latente pronto a scoppiare nuovamente in pochi anni.

 

C’è però un altro attore che con più discrezione si sta affacciando da alcuni anni sul palcoscenico dei drammi mediorientali: la Cina. Il 29 marzo Pechino ha nominato il proprio inviato speciale per la crisi siriana, Xie Xiaoyan, un diplomatico di lungo corso che è stato, tra le altre cose, ambasciatore a Teheran. La nomina di un inviato speciale da parte cinese per una crisi mediorientale è una mossa rara, quasi inedita, ma che rientra in un silenzioso processo di avvicinamento agli affari della regione. Un processo che ha visto come ultima tappa fondamentale l’inaugurazione di una base navale militare a Gibuti e, a gennaio, una visita del presidente Xi Jinping in casa dei due arci-nemici locali, Arabia Saudita e Iran, conclusasi con accordi miliardari da entrambe le parti. Un processo lento, in pieno stile cinese, ma che vede la Cina candidarsi a nuovo attore determinante in medio oriente per il futuro. Come la Russia, e forse più della Russia.

 

Nonostante l’esibizionismo bellico di Mosca, con tanto di “televendita” di prodotti missilistici al termine di ogni bombardamento, la Russia è infatti un orso dai piedi d’argilla, con una economia “rentier” in sofferenza non dissimile da quella delle monarchie del Golfo. Se è vero che il peso dell’economia negli affari internazionali conta qualcosa, soprattutto nel lungo termine, bastano due paragoni per capire la differenza: 120 miliardi di esportazioni cinesi verso medio oriente e nord Africa nel 2014 contro i 6 della Russia;  128 miliardi di importazioni cinesi dal medio oriente, contro i 2 russi. In particolare, la Cina guida oggi la domanda e i prezzi del greggio a livello internazionale, prezzi da cui dipendono le dissestate economie mediorientali e anche quella russa.

 

Se c’è un motivo per cui dal medio oriente è utile guardare più a Pechino che a Mosca nel medio-lungo termine è quindi questo: oggi, dopo l’inizio del ritiro americano, Mosca dispiega abbastanza proiezione strategica e potere militare da poter condizionare pesantemente i governi della regione. Ma arriverà un momento in cui, superati i grandi rigurgiti nazionalisti, qualcuno al Cremlino dovrà chiedersi “a che scopo?” Perché condizionare governi se la propria economia non è in grado di trarne alcun vantaggio? Una domanda a cui i cinesi, al contrario, sanno già rispondere alla perfezione.