Il lavoro irraggiungibile dei rifugiati allarma l'establishment tedesco

Pietro Romano
Sui migranti è scontro tra Unione europea e Austria: "Per le richieste di asilo è illegale il tetto giornaliero"

Roma. “Per motivi economici e demografici la Germania deve attirare lavoratori produttivi. Ma da tutto il mondo, non solo dalle zone di guerra. Questa sfida passa da un Immigration Act che, come in Australia e Canada, faccia combaciare la professionalità dei nuovi arrivati e le necessità della nazione”. A chiederlo è Klaus F. Zimmermann, direttore dell’Istituto per lo studio del lavoro di Bonn, molto cauto sull’automatismo “arrivo dei rifugiati, rilancio dell’economia tedesca”, oggi inchiodata a una crescita del prodotto interno lordo dello zero virgola qualcosa. Mentre la Commissione europea censura la proposta dell’Austria di porre un limite al numero di richiedenti asilo in transito sul suolo austriaco, l’allarme di Zimmermann sintetizza un ragionamento che accomuna i “middle aged working class white men” (i maschi bianchi di mezza età con un lavoro medio-basso) all’establishment economico. La Germania-che-conta, inizialmente convinta dalle rassicurazioni della cancelliera Angela Merkel, avrebbe aperto gli occhi grazie ad alcune indagini socio-economiche poco ottimistiche, oltre alla constatazione empirica delle difficoltà di inserimento nel tessuto sociale di tante persone senza lavoro, senza conoscenza della lingua, senza effettiva volontà di integrazione, come insegnano i fatti di Colonia e di molte altre località tedesche.

 

Al momento, la Germania ha un milione di posti di lavoro vacanti, perlopiù nella filiera del sistema industriale manifatturiero ad alto tasso di innovazione, quello che traina l’apparato produttivo e le esportazioni tedesche. Viceversa, benché la disoccupazione sia ai minimi dalla riunificazione (il 6,3 per cento a gennaio) nel paese ci sono due milioni e mezzo di senza lavoro, nella grande maggioranza poco qualificati. Un quinto dei lavoratori scarsamente qualificati è disoccupato, secondo l’Istituto per l’educazione di Monaco, e il ministro del Lavoro, Andrea Nahles, ha previsto che questa quota sia destinata a crescere, soprattutto per l’arrivo dei rifugiati.

 

Nonostante le speranze riposte dalla cancelliera Merkel, insomma, sembra difficile che gli attuali posti vacanti possano essere occupati dai rifugiati arrivati in Germania negli ultimi anni, mette in guardia l’Istituto tedesco sulla ricerca di occupazione. Meno del 15 per cento dei rifugiati provenienti dal medio oriente e dall’Africa, infatti, possiede una formazione professionale e/o un titolo di studio medio-alto. Anche tra quanti ne sono provvisti, però, la situazione sarebbe tutt’altro che soddisfacente. Secondo una ricerca a campione sulla scorta della classificazione Ocse, un titolo di ottavo livello posseduto da un rifugiato equivale a un titolo di terzo livello detenuto da un cittadino tedesco. Un problema sentito anche nell’artigianato. “Chi viene dall’Eritrea e asserisce di essere un elettricista potrebbe essersi limitato a riparare una radio o a posare un cavo, senz’avere mai visto un fusibile, com’è mediamente comune in Germania”, è l’opinione di Achim Dercks, vice direttore esecutivo dell’Associazione delle Camere di commercio tedesche. 

 

[**Video_box_2**]L’unica strada, quindi, è il tentativo di colmare questo divario con dosi massicce di preparazione scolastica, tecnica, professionale. “Un impegno non da poco: integrare un rifugiato può essere altamente costoso e richiedere molto tempo”, sottolinea Zimmermann. E ha bisogno di basi di partenza inderogabili, a cominciare dall’età. Un punto problematico, secondo le statistiche del ministero degli Interni. Circa la metà dei rifugiati in età dal lavoro ha oltre venticinque anni. Un’età che rende complicato perfino avviare il nuovo venuto a corsi minimi di qualificazione, che richiedono non meno di tre anni e una conoscenza della lingua di livello medio, sia colloquiale sia tecnico. Non solo. Da Amburgo l’Agenzia federale del lavoro ha lanciato un altro avvertimento: perfino i rifugiati più o meno ventenni si rifiutano di rimanere per alcuni anni (un corso di lingue e poi per un triennio minimo la formazione professionale) in un banco senza la prospettiva di guadagnare rapidamente.