Mariano Rajoy (foto LaPresse)

Perché nessuno in Spagna si vuole alleare con Rajoy, purtroppo

Eugenio Cau
I numeri dell’economia sono i migliori dai tempi della crisi, ma il premier è incastrato nella peggiore impasse politica di sempre

Roma. Il gran dilemma della crisi politica spagnola, e in particolare della crisi del premier facente funzioni Mariano Rajoy, sta tutto in due numeri. Il primo è 3,2, ed è la percentuale di crescita record del pil spagnolo nel 2015, la più alta dell’Europa continentale, presentato ieri dall’Istituto nazionale di statistica di Madrid. E’ il dato più importante dal 2007, prima dell’inizio della crisi. Se messo insieme a un altro dato record, quello diffuso giovedì secondo cui l’occupazione non cresceva così tanto dal 2011, con mezzo milione di posti di lavoro creati nel 2015, l’uscita della Spagna dalla crisi economica ormai è reale e difficile da smentire. E’ una prova che le riforme messe in campo da Rajoy a partire dal 2011 hanno avuto successo, del fatto che le sue ricette erano giuste, che il governo del Partito popolare è sempre stato sulla buona strada. Il secondo numero invece è 50: sono i leader di partito, consiglieri locali, segretari licenziati ieri nel completo azzeramento della cupola del Partito popolare a Valencia, dopo l’ennesimo, devastante ed eccezionalmente ben sincronizzato scandalo giudiziario che ha colpito il partito conservatore spagnolo. Le specifiche sono simili ai molti scandali che hanno costellato gli ultimi anni del governo di Rajoy, colpendo in misura quasi uguale popolari e socialisti e generando in Spagna una richiesta insistente di cambiamento che ha portato alla nascita della “retorica della rigenerazione”, di Podemos e di Ciudadanos. Accuse di presunti finanziamenti illegali e atti di corruzione, con tanto di minisistema di riciclaggio di denaro.

 

Ma le ricadute politiche sono diverse dal solito, perché il nuovo, puntualissimo scandalo arriva nel pieno della più grande impasse della storia repubblicana spagnola, con i partiti incapaci perfino di formare governi di minoranza e re Felipe VI, capo dello stato, più screditato che mai. Dopo la notizia dello scandalo, le forze politiche si sono affrettate a prendere le distanze da Rajoy. Il Partito socialista ha deciso di velocizzare le trattative con i populisti di Podemos per formare un governo spostato a estrema sinistra, e perfino Albert Rivera, il leader di Ciudadanos, il più disponibile al dialogo e alla formazione di un governo di responsabilità, è stato in un certo senso costretto a dire che per ottenere il sostegno della formazione centrista, il Pp deve liberarsi di Rajoy: “E’ chiaro che le sue responsabilità nella gestione di un partito con tanti casi di corruzione può rendere più difficile un accordo”, ha detto il suo vice José Manuel Villegas. “Nessuno ci può dire quello che dobbiamo fare”, ha risposto ieri Rajoy, ma per Rivera è stato quasi inevitabile, perché la sua credibilità politica si basa in gran parte sulla retorica anticorruzione con cui Ciudadanos e Podemos hanno infiammato la campagna elettorale.

 

[**Video_box_2**]E’ questo il dilemma di Rajoy, premier inevitabile, il salvatore della Spagna e l’unico di cui i mercati, i partner europei e gli investitori internazionali si fidino veramente, e al tempo stesso impresentabile, costretto a rifiutare l’offerta del re di formare un governo, incapace di stringere alleanze perché un’idea di cambiamento con poco costrutto e molta intransigenza ormai si è diffusa in Spagna come un virus.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.