Benjamin Netanyahu e Barack Obama in un bilaterale del 2012 alla Casa bianca (foto LaPresse)

La tregua calcolata fra Obama e Netanyahu

Oggi a Washington l'incontro tra i due leader che dopo l'accordo con l'Iran cercano di non farsi troppo male

New York. “Reset” è una parola a tal punto sventurata e carica di accenti deludenti che nessuno alla Casa Bianca ha il coraggio di riutilizzarla, specialmente quando si parla di Benjamin Netanyahu, alleato che non ha trovato il feeling con Obama nemmeno prima che si firmasse l’accordo nucleare con l’Iran. Durante il primo mandato di Obama il principale motivo politico della freddezza fra i due è stato il disaccordo sulla costruzione nei settlement; nel secondo la questione iraniana ha sovrastato qualunque altro tema in agenda, portando Bibi a criticare apertamente la decisione di Obama e a scatenare una campagna di lobbying al Congresso che per poco non ha fatto naufragare l’accordo con gli ayatollah (accordo che nel frattempo è già stato umiliato nei modi più diversi da Teheran, dai test missilistici in contravvenzione alla risoluzione Onu fino agli arresti e alle condanne di cittadini americani in Iran). A questo va aggiunta la schietta e ormai leggendaria antipatia personale fra i due leader, sottolineata da sberleffi, telefonate gelide e ore d’anticamera.

 

Non è per un “reset”, dunque, che Netanyahu sbarca domenica a Washington e lunedì mattina si presenta alla Casa Bianca, piuttosto si tratta di stabilizzare e ricucire con realismo un rapporto compromesso da una catena di disaccordi culminata del disaccordo supremo dell’Iran, un’opera di normalizzazione che è nell’interesse di entrambi i paesi. “Non sarà un incontro caloroso e generico, piuttosto si tratterà di ciò che abbiamo bisogno per difenderci e per esercitare la deterrenza sull’Iran”, ha detto l’ex ambasciatore Michael Oren, che è stato per anni l’uomo di Bibi a Washington. In questo incontro d’affari, scondito di apparenze diplomatiche, Netanyahu mette sulla scrivania di Obama una richiesta di incremento degli aiuti militari, fino ad arrivare alla cifra di 4,5 miliardi di dollari l’anno.

 

E’ questo il prezzo minimo che Bibi chiede a Obama per onorare almeno le parole affidate a Jeffrey Goldberg – la bocca giornalistica dei rapporti fra America e Israele – a maggio: “Nessun presidente americano è stato tanto deciso nel garantire che Israele possa difendersi”. Il primo viaggio in Israele del generale Joseph Dunford, capo delle Forze armate americane, sottolinea la volontà di Washington di riallacciare i rapporti a livello militare per rassicurare l’alleato indispettito. Netanyahu vuole trattare personalmente la questione, e non l’ha affidata al ministro della Difesa, Moshe Yaalon, che di recente è stato in visita nella capitale americana.

 

[**Video_box_2**]La nomina di Ran Baratz come nuovo portavoce del primo ministro di Israele sembra pensata per indispettire gli americani: il consigliere è noto per avere accusato Obama di essere antisemita e John Kerry di avere il cervello di un preadolescente, ed era inevitabile che il dipartimento di stato emettesse una reprimenda ufficiale per le affermazioni “insultanti e preoccupanti”, ma è anche un gioco delle parti inscritto nel canovaccio del “bad cop” di Netanyahu. In modo meno esplicito, il premier ha fatto almeno un paio di manovre che indicano la volontà di ricalibrare e distendere i rapporti con Obama. Primo:  l’accordo milionario con la compagnia americana Noble Energy per lo sfruttamento del giacimento di gas Leviathan, a poche miglia dalle spiagge di Haifa. Secondo: il sostanziale congelamento delle costruzioni nei Territori palestinesi, precondizione fondamentale dell’accordo di pace che Obama era convinto di riuscire ad agevolare durante la presidenza, e che è fallito per l’ennesima volta sotto lo sguardo impotente di Hillary Clinton.

 

Nel briefing in preparazione alla visita, un funzionario della Casa Bianca ha confermato che da qui alla fine del mandato di Obama una soluzione a due stati non è raggiungibile: “Questa è la prima volta dall’Amministrazione Clinton che la prospettiva di un negoziato non è sul tavolo”. L’ultimo indizio dell’intento calcolato e conciliante della trasferta di Bibi è nel ritrovato spirito bipartisan di Washington sulla questione. Il Congresso pro Israele che ha accolto Netanyahu a marzo, nella visita in cui ha snobbato Obama, ora invoca unanime una qualche forma di riconciliazione. E il premio che riceverà lunedì dal think tank conservatore American Enterprise Institute è stato bilanciato con un invito dell’ultimo minuto del Center for American Progress, il centro studi più vicino a Obama.