Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif a Teheran lo scorso giugno durante una pausa dell’incontro con Federica Mogherini (foto LaPresse)

Chi è Zarif, il ministro iraniano che siederà al tavolo del negoziato sulla Siria

Tatiana Boutourline
Dopo la firma del deal il ministro degli esteri dell'Iran è il volto pubblico della distensione made in Teheran. Il trionfo della sua tela diplomatica è la conferma che niente potrà cambiare a Damasco fino a che l’Iran non sarà coinvolto nella risoluzione della crisi

Javad Zarif è il tipo di rivoluzionario che puoi invitare a cena: ti guarderà dritto negli occhi, converserà con garbo e non cercherà di convertirti alla causa, perché è un uomo di mondo e conosce le regole del gioco. Il più americano dei politici iraniani è riemerso dalla quarantena cui lo aveva condannato Mahmoud Ahmadinejad e il successo della trattativa nucleare ha fatto di lui l’uomo del momento: lo ringraziano gli investitori internazionali e lo elogiano tanto gli ayatollah di Qom quanto il presidente Hassan Rohani, che lo accomuna ai più valorosi comandanti della guerra Iran-Iraq, lo ha lodato, soprattutto, Ali Khamenei, la Guida Suprema della rivoluzione, senza il cui appoggio – ha ammesso candidamente al New Yorker – “sarebbe morto da tempo”.

 

E invece l’ex plenipotenziario iraniano alle Nazioni Unite (2002-2007), inviso ai falchi per la naturale propensione a fluttuare tra la passione rivoluzionaria e il calcolo razionale, ha vinto, almeno per ora, la sua scommessa e si gode la seconda grande occasione della sua vita, flirtando un po' con il partito transnazionale dei nazionalisti iraniani, sempre in attesa di essere salvati dal nuovo Mohammed Mossadegh, e un po’ con l’intellighenzia europea, fiduciosa che la rivoluzione khomeinista imboccherà, prima o poi, il suo Termidoro.

 

Con le sue passeggiate sul lago di Ginevra fianco a fianco al segretario di stato americano John Kerry e la stretta di mano “accidentale” con il presidente Barack Obama, Zarif ha felicemente incarnato il volto pubblico della distensione made in Teheran e tutto, in queste settimane, è parso all’improvviso plausibile, se non addirittura possibile: una staffetta al vertice con Rohani, un Nobel per la pace da condividere con Kerry e un invito – stavolta vero e non più verosimile – al summit sulla Siria che inizia questa sera a Vienna, un’occasione preziosa per rilanciare la leadership regionale di Teheran e insinuare il sospetto che dopo il deal nucleare niente sarà davvero più come prima.

 

Escluso dai colloqui denominati Ginevra-1 e bruscamente liquidata anche da Ginevra-2 quando il segretario Onu Ban Ki-moon ritirò la sua apertura su richiesta di Washington, l’Iran assapora finalmente il gusto della rivincita annunciando la presenza di Zarif dopo la conferma dell’invito ufficiale da parte del dipartimento di stato americano. E’ il trionfo della sua tela diplomatica, la conferma che niente potrà cambiare a Damasco fino a che l’Iran non sarà coinvolto nella risoluzione della crisi, un successo reso ancora più gradito perché avviene sotto lo sguardo attonito dei rivali sauditi.

 

L’aggettivo con cui viene più spesso descritto il capo della diplomazia iraniana è “gioviale”, ma l’unico uomo che può avere una conversazione con Kerry un giorno e con Khamenei quello successivo, convincendoli entrambi, ha una personalità camaleontica: può essere paziente in situazioni delicatissime, ma anche esplodere all’improvviso. Le cronache del deal nucleare sono puntellate di episodi che tradiscono una natura fumantina e il furibondo “Never threaten an Iranian!” in risposta ad un avvertimento dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, è diventato un cult. Ciò nonostante se chiedete a chi conosce Zarif di descrivervelo, l’immagine che resta cristallizzata di lui è quella di un uomo affabile e spontaneo, a suo agio in quel tipo di informalità educata che si apprende soltanto dopo una lunga consuetudine con i luoghi in cui viene praticata. A differenza di Khamenei che teme la cultura occidentale, i suoi usi e costumi come il peggiore dei flagelli, il suo ministro degli Esteri non inorridisce e nemmeno si scompone. Parla l’inglese con una proprietà di linguaggio che manca a molti colleghi europei e può infarcire i suoi discorsi con esempi, modi di dire e battute giuste al momento giusto che lo fanno apparire subito familiare e contemporaneo. A differenza della stragrande maggioranza degli esponenti della Repubblica islamica, Zarif ha anche il dono della sintesi. Se gli fanno una domanda non si perde in infinite invocazioni religiose e neppure risponde con l’ estenuante sfilza di controquesiti, marchio di fabbrica di Ahmadinejad. Zarif ha un approccio diretto tesi-antitesi-conclusione che gli deriva certamente anche dalla formazione a stelle e strisce.

 

La storia americana del ministro degli Esteri iraniano risale a quando ha appena 17 anni e sbarca negli Stati Uniti per frequentare l’ultimo anno di scuola superiore prima dell’iscrizione alla San Francisco State University. Il padre è un ricco mercante e sogna per lui un futuro da ingegnere, ma la rivoluzione cambia i piani di tutti. I genitori di Zarif restano freddi nei confronti di Ruhollah Khomeini, ma in America – dove trascorrerà 20 dei suoi 55 anni – Javad gravita intorno all’Associazione degli studenti musulmani di Berkeley. Molti ragazzi si precipitano in Iran infiammati dal verbo rivoluzionario, ma mentre in patria tutto cambia, lui resta in America a proseguire gli studi fino a che una fortunata catena di circostanze gli regala un lavoro alla missione iraniana alle Nazioni Unite. I diplomatici dello scià vengono eliminati e sostituti con chiunque si trovi al posto giusto al momento giusto. Rispetto agli altri, Zarif offre la sua devozione e l’ottima conoscenza dell’inglese, una qualità decisiva al tempo, ma che poi finirà per metterlo costantemente nel mirino dei falchi.

 

In un libro autobiografico intitolato “Mr Ambassador” e scritto negli anni del suo purgatorio a Teheran anche per prendere le distanze dalla vita americana, Zarif descrive la sua vita all’estero come un’esperienza ostica in cui a prevalere è il senso di estraneità. Nonostante due figli nati e cresciuti in America, i coniugi Zarif si sono sempre sentiti un po’ alieni. La moglie Maryam non rivolgeva parola ai vicini e non le sono bastati vent’anni d’America per imparare i nomi delle spezie in inglese. New York l’esploravano di rado, perché la loro è una coppia religiosa che si attiene a regole di vita severe, che non contemplano cedimenti riguardo all’alimentazione o al consumo di alcolici. Chez Zarif per anni non c’è nemmeno stata una televisione perché Maryam l’ha osteggiata e ha ceduto soltanto dinnanzi alle insistenze del marito ambasciatore. Per rilassarsi mai un cinema, un musical o un ristorante esotico: Javad e Maryam al massimo si concedevano una gita insieme al supermercato o una passeggiata soli soletti, nei weekend, a Central Park. Un quadro di noia talmente desolante da far apparire eccitanti gli incontri di poesia religiosa che si svolgono settimanalmente nelle segrete stanze di Khamenei.

 

[**Video_box_2**]Nonostante il fallimento dell’integrazione denunciato da Zarif, i diplomatici che all’epoca frequentavano la coppia hanno un ricordo di una famiglia più vivace e di una donna meno sacrificata, che, pur senza venir meno ai dettami dell’ortodossia rivoluzionaria, appariva più amichevole che distante.

 

Nel 2007, il New York Times scrive che l’ubiquità di Zarif alle conferenze nelle università, nei club e nei think tank è tale da spingere Lisa Anderson, al tempo rettore della Columbia University, a domandargli se non abbia per caso anche lui intenzione di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti. E’ il riconoscimento di una “legittimità” che Zarif andava cercando dopo gli anni difficili della guerra con l’Iraq in cui gli inesperti diplomatici della Repubblica islamica vengono a tal punto ostracizzati all’Onu che “nessuno voleva nemmeno bere un tè” con loro.

 

In un articolo su Bloomberg, Eli Lake si chiede quale sia il segreto del successo di Zarif e giunge alla conclusione che una parte del merito sia da ascrivere a uno charme naturale e l’altra alla costanza con cui ha coltivato relazioni decennali con la determinazione di “un candidato alle presidenziali che si lavora gli attivisti locali del partito in Iowa e New Hampshire”. Nella sua febbrile girandola di contatti, Zarif non ha mai evitato il confronto. Si è reso accessibile.

 

Ma nel 2007 la parabola discendente di Zarif è già iniziata e le luci della ribalta che accompagnano la sua carriera newyorchese stanno per spegnersi. “Non avevo niente a che fare con quel che succedeva in Iran – rivela nelle sue memorie – ero un ambasciatore imposto al suo presidente”. E’ il momento più infelice della sua carriera. Robin Wright, che lo segue da sempre, prima per il Washington Post e poi per il New Yorker, lo intervista prima della partenza e il sagace polemista che conosce le appare tutto a un tratto fragile e insicuro quando le confessa di temere di essere accolto in patria “come uno stupido idealista che ha offerto concessioni unilaterali e non ha raggiunto alcun risultato”. Di lì a breve arriverà il momento dei commiati ufficiali: nel marzo 2007 Javad Zarif vola a Washington per una trasferta di brevissima durata, 24 ore in tutto, il tempo concesso da un permesso speciale del dipartimento di stato che lo autorizza ad oltrepassare il raggio di 25 miglia dalle Nazioni Unite imposto ai diplomatici iraniani di stanza al Palazzo di Vetro. Sono trascorsi cinque anni dalla sua nomina a capo della diplomazia iraniana all’Onu, Mohammed Khatami e i suoi discorsi sul “Dialogo tra le civiltà” sono stati soppiantati dalle invettive antisemite di Ahmadinejad, 15 marinai britannici sono stati catturati dai pasdaran nel Golfo Persico e il Consiglio di Sicurezza ha appena passato la terza risoluzione contro il programma nucleare iraniano. Tuttavia, nonostante il clima internazionale sfavorevole, Zarif viene trattato come un ospite di riguardo e partecipa a incontri bipartisan a Capitol Hill in cui si avverte sincero rammarico per la sua imminente dipartita. “Zarif è un osso duro, ma è anche un uomo pragmatico. Può giocare un ruolo importante nel risolvere pacificamente le nostre significative divergenze”, dice di lui Joe Biden, allora senatore del Delaware e oggi vicepresidente americano. Non se ne è ancora andato e già lo rimpiangono tanto i democratici Harry Reid e Dianne Feinstein quanto i repubblicani John Warner dell’Armed Services Committee e Chuck Hagel, ex segretario alla Difesa, per il quale Zarif era l’uomo giusto per percorrere la via dell’engagement.

 

A un pranzo organizzato dal Council on Foreign Relations, Martin Indyk, già ambasciatore statunitense in Israele, gli dice: “We’re going to miss you”. A una cena al Nixon Center, il presidente Dmitri Simes  lo introduce  come “uno dei diplomatici più abili che io abbia mai conosciuto”. Secondo Simes, l’esperienza di Zarif ricorda quella di Anatoly Dobrynin, il leggendario ambasciatore sovietico a Washington negli anni della Guerra Fredda. “E’ un dilemma per qualsiasi diplomatico trovare il giusto equilibrio tra difendere il proprio governo e non difendere l’indifendibile”: per Simes, “Zarif ci è riuscito”.

 

Naturalmente, c’è anche chi è rimasto immune al fascino di Zarif. Kenneth Timmerman della Foundation for Democracy in Iran per esempio o John Bolton, già membro dell’Amministrazione di George W. Bush ed ex ambasciatore statunitense all’Onu, che metteva in guardia dai troppo facili entusiasmi “nei confronti del volto ragionevole di un regime irragionevole”.

 

Di tutti i commenti relativi alla fine della sua esperienza alle Nazioni Unite, Zarif è soprattutto colpito dall’investitura dell’ex segretario di stato Henry Kissinger che lo trova “intelligente, cortese e disciplinato”. Durante l’ennesimo ricevimento in suo onore, un comune amico gli regala una copia del libro del decano della scuola realista “Diplomacy” corredata dalla dedica: “Al mio stimato avversario”.

 

E’ proprio perché alla base dello stile-Zarif c’è l’abitudine a chiamare i suoi interlocutori americani “avversari” piuttosto che "nemici" – difficile crescere due figli in uno stato in cui devi chiamare tutti nemici – che Zarif viene subito percepito dalla comunità internazionale come il primo ramoscello d’ulivo teso da Rohani alla comunità internazionale. Prima della rinascita, scandita da 20 mesi di incontri tra Kerry e Zarif (in Iran non si rinuncia a chiamare rispettosamente “agha” ossia “signore” anche un calciatore durante una telecronaca, e l’intimità della circostanza deve essere parsa insopportabile ai conservatori iraniani, come ha lasciato intendere Zarif quando ha spiegato divertito a Wright: “Darvi del tu è una delle prime cose che fate voi americani, non ne fossi stato a conoscenza sarei rimasto costernato”), mesi in cui è cresciuta una familiarità impensabile fatta di biglietti di auguri e consigli contro il mal di schiena, liti furibonde e discussioni che finivano con una stretta di mano come in una coppia che non vuole dormire senza prima aver fatto pace (“Abbiano entrambi affrontato il negoziato da una posizione di rispetto reciproco, anche quando la discussione è divenuta infuocata. Alla fine di ogni incontro sorridevamo e sapevamo che ci saremmo rivisti il giorno e che il processo negoziale sarebbe continuato”, ha detto Kerry) ci sono stati sei anni nell’ombra in cui l’iraniano più amato a Capitol Hill si è trovato condannato alla pensione a 47 anni. Ha riempito le giornate insegnando, si è dedicato dedicandosi alla sua antica passione per l’architettura e tiene un bassissimo profilo durante la tumultuosa estate del 2009. Contrariamente alla sua disponibilità ad affrontare i temi più complessi della politica estera, Zarif è refrattario a scoprire le carte riguardo alla politica interna. Dai pochi commenti che gli sono sfuggiti pare critico tanto nei confronti dei riformisti che dei conservatori e non è affatto disposto a mettersi in gioco quando si tratta di diritti umani.
“La rabbia e l’alienazione hanno creato nuove opportunità. Rohani ha ricevuto un mandato per condurre una politica estera differente”, ha detto a Wright. Ma a chi gli chiede se sia per caso divenuto un realista risponde sibillino: “Mettiamola come farebbe Kissinger. Molte persone pensano che gli interessi iraniani siano meglio serviti se riusciamo a trovare un modo per far diventare complementari l’Iran come causa e l’Iran come stato-nazione. Non sarebbero più in conflitto e non dovremmo scegliere”. Zarif non ama scegliere. Il suo forte è l’arte della trattativa, hunar-e-tahamol, e niente pare scalfirlo. Conserva le sue relazioni con il who’s who della politica occidentale e non si intromette nella politica “poco educata” del generale Qassem Suleimani. Sull’aereo che lo riporta in patria dopo il primo passo nella lunga maratona negoziale con Kerry nel novembre 2013, a circa giorni dall’inizio del suo mandato, Zarif alle 10.45 di una domenica mattina, ora iraniana, aggiorna il suo status su Facebook e scrive: “L’arte del diplomatico è nascondere tutte le turbolenze dietro il suo sorriso”.

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