Matteo Renzi con Abdelmalek Sellal (foto LaPresse)

L'Algeria non è la Libia, ma forse può diventare peggio

Dario D'Urso

Altri effetti del petrolio a buon mercato sulla sponda sud del Mediterraneo e possibili “primavere arabe” a scoppio ritardato

Se pensate che il caos libico sia quanto di peggiore sia capitato all’Italia nella sua proiezione sul Maghreb, think again. I guai da Primavera araba non sono finiti, perché c’è un nuovo calderone pronto a esplodere di fronte casa nostra, e questa volta non possiamo permetterci la naïveté di cui abbiamo fatto sfoggio a Tripoli qualche anno fa. Questa volta c’è l’Algeria in ballo, e con essa il 20 per cento delle nostre importazioni di gas.

 

Nelle ultime settimane, il premier Abdelmalek Sellal ha ammesso pubblicamente a mezza bocca quello che i media di vario orientamento sbandierano da mesi: il brusco e – per il momento – inarrestabile calo del prezzo di petrolio e gas ha avuto effetti deleteri su un bilancio statale che sugli idrocarburi dipende per il 60 per cento, spianando la via a misure di austerità e al congelamento degli investimenti pubblici. Con un barile intorno ai 50 dollari nel 2015, l’Algeria ha perso quasi il 44 per cento delle entrate solo nei primi sette mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2014. A ciò si aggiunge una produzione in leggero declino a fronte di un aumento del consumo interno, circostanza che riduce i margini per le esportazioni. E per far fronte al conseguente squilibrio nella bilancia dei pagamenti e coprire il deficit di bilancio – usato anche per finanziare i generosi sussidi pubblici su generi alimentari e benzina – le autorità algerine si sono viste costrette a vendere un po’ di quell’argenteria accumulata in tempi di vacche grasse nel proprio fondo sovrano, che nei primi quattro mesi del 2015 è stato intaccato per la cifra record di 20 miliardi di dollari. L’imminente ritorno sul mercato del greggio iraniano e segnali di possibili ripresa petrolifera in Iraq e – chissà – in Libia non fanno che dar fiato alle cassandre algerine – che irridono gli inviti tardivi del governo a gettarsi anima e corpo sulla import substitution attraverso incentivi all’industria non petrolifera locale: too little, too late.

 

Ma c’è di più. Non potremmo infatti definire “perfetta” la tempesta che si sta creando sull’altra sponda del Mediterraneo se non valutassimo il combinato disposto tra la oil curse algerina e il quadro politico del paese. I probabili effetti negativi sull’occupazione delle misure recessive messe in cantiere dal governo andrebbero a esasperare un clima sociale già teso dopo l’ennesima vittoria elettorale, lo scorso anno, del presidente Bouteflika. Per quanto simbolo per molti algerini della stabilità raggiunta dopo un decennio di guerra civile, l’anziano leader personifica allo stesso tempo per molti giovani un regime gerontocratico che non considera nemmeno la malattia un impedimento a un quarto mandato: le immagini del giuramento appena bisbigliato sul Corano del presidente fiaccato da due ischemie ha rafforzato i timori locali e internazionali verso un sistema di potere ormai tanto centralizzato quanto paralizzato.

 

[**Video_box_2**]Non stupisce, quindi, se la parola successione non sia tabù né ad Algeri né in altre capitali: la questione, più che altro, è il rischio che le tensioni sociali rafforzate dall’austerity prossima ventura si incrocino con una transizione post-Bouteflika dai contorni ancora poco chiari, facendo precipitare il nostro secondo fornitore di gas nel caos. Se la piazza appare pronta a ribollire, i palazzi non sono da meno, con le varie anime dell’establishment già in lotta tra loro: la cacciata, qualche settimana fa, dell’onnipotente capo dei servizi segreti, Gen. Mohamed Mediene – vero kingmaker della politica algerina, in carica dal 1990 – è stata vista come il tentativo del presidente malato di togliere di mezzo un influente antagonista e decapitare un centro di potere alternativo al proprio in vista della successione.

 

Le variabili della “tempesta perfetta” algerina sono in posizione, in attesa di un innesco che potrebbe riportare il paese nel precipizio da cui è uscito a fatica solo sedici anni fa. Dopo la scottatura libica, l’Italia farebbe bene a prepararsi a una Primavera Araba a scoppio ritardato dalla conseguenze ben peggiori per la nostra sicurezza energetica.

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