“Un buco infernale”

Paola Peduzzi
La guerra al campo di Yarmouk spiega la strategia dell’Is, l’incertezza occidentale e la debolezza di Assad

Milano. “It’s a hell hole”, è un buco infernale. Così Christopher Gunness, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa degli aiuti ai profughi palestinesi, ha definito Yarmouk, l’ultimo – non l’unico – campo di battaglia della guerra siriana. Nel buco infernale sono intrappolate 18 mila persone (più di tremila sono bambini): lo Stato islamico – secondo alcune fonti con l’aiuto inedito di Jabhat al Nusra, la filiale siriana di al Qaida finora in lotta contro il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi – sta conquistando il campo profughi palestinese, il regime di Damasco guidato da Bashar el Assad lancia le sue feroci “barrel bombs” per fermare l’avanzata del califfo, le Nazioni Unite chiedono accesso al campo, per portare aiuti umanitari, definiscono la situazione “oltre l’inumano”. “Oggi ho camminato tra le bombe e i cecchini per cercare cibo ai miei figli”, ha detto al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth un palestinese di Yarmouk, “se vuoi uscire di casa, devi portarti dietro il sudario per il tuo funerale”.

 

Il buco infernale di Yarmouk dice molto – e tutto quel che dice è raccapricciante – della crisi siriana. Questo campo è stato creato dopo la nascita dello stato di Israele, nel 1948, ed è al centro di una battaglia dal 2012: prima dell’inizio della guerra di Assad contro il suo popolo “ribelle” ospitava circa 150 mila persone, c’erano le scuole, le moschee, una specie di municipio. Il buco infernale era considerato a tutti gli effetti un quartiere di Damasco: la capitale siriana dista da qui dieci minuti in autobus. Ora ci sono circa ventimila persone, chi è riuscito ad andarsene l’ha fatto, perché la strategia dell’assedio e della fame messa in piedi dal regime di Assad in questi anni è stata applicata anche a Yarmouk.

 

Lyse Doucet della Bbc è entrata a Yarmouk l’anno scorso assieme a uno dei rari convogli umanitari delle Nazioni Unite, ha girato un filmato di tre minuti che è così straziante da essere quasi inguardabile. Prima che arrivassero gli islamisti – che tentano di assaltare il campo da tempo, perché è un accesso strategico alla capitale siriana – a Yarmouk si moriva di fame. Non arrivava l’acqua, non arrivava il cibo, i camion con gli aiuti internazionali venivano bloccati alle porte del campo, il cibo marciva, le case erano distrutte dagli attacchi aerei: “Sembra il luogo di un disastro naturale – inizia il reportage della Doucet – e invece è un disastro fatto dall’uomo”: in questo caso l’uomo è Assad. Il regime di Damasco ha replicato questo stesso schema di assedio in molte parti del paese, nonostante negli accordi internazionali ci fosse l’obbligo, da parte di Assad, di lasciar transitare gli aiuti dell’Onu. Buona parte della Siria è morta così, di fame, s’è spenta piano piano, nell’indifferenza internazionale, ed è poi diventata preda dei razziatori dello Stato islamico, feroci e disumani, che ora pubblicano i loro video con i canti per le strade di Yarmouk.

 

[**Video_box_2**]Dove c’è un vuoto, i jihadisti si infilano. E poi è ovvio che per contrastarli è necessario fare alleanze diaboliche, quante volte si legge ormai nelle analisi di politica internazionale la formula “il male minore”, che tutto copre, soprattutto il fatto che una volta, quando quel male era maggiore – e altrettanto “oltre l’inumano” –, nulla è stato fatto per fermarlo, o almeno contenerlo? Il male minore oggi per l’occidente è combattere lo Stato islamico con gli iraniani in Iraq e con Assad in Siria. Ma il dittatore di Damasco, che può restare dov’è perché nessuno sa e vuole levarlo da lì, non si sta rivelando un alleato efficace. Il campo di Yarmouk è stato decimato ma è strategicamente rilevante: chi lo controlla ha la via aperta per arrivare a Damasco. Negli ultimi quattro anni di guerra qui hanno operato diverse forze legate ai ribelli, poi infiltrate da islamisti più radicali, ma lo Stato islamico, che ha già cercato un’altra volta soltanto quest’anno di prendere il campo, non riusciva a insidiarlo. Ora che ce l’ha fatta, scrive Hassan Hassan, coautore assieme a Michael Weiss di “ISIS: Inside the Army of Terror”, Yarmouk potrebbe diventare il punto di partenza per una conquista del sud della Siria da parte del Califfato. Non c’è soltanto la questione umanitaria, che la comunità internazionale ha già ampiamente ignorato, ma ce n’è anche una strategica importante: il confine a sud con Israele dista 78 chilometri da Damasco. Assad è il male minore, ma come stabilizzatore non è poi così affidabile.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi