Manifestazione davanti al museo Bardo a Tunisi (foto LaPresse)

Non credete ai gufi, la Tunisia è ancora un caso di successo

Redazione
Lo stato nordafricano sta reagendo, e bene. L’obiettivo dell’attentato all’antico museo, rivendicato dallo Stato islamico, era quello di minare la transizione dell’unico paese che è riuscito a trasformare la primavera araba in un motore di cambiamento.

Milano. Ieri era prevista la riapertura del museo del Bardo a Tunisi, la dimostrazione che il terrorismo colpisce però non vince, ma l’appuntamento è stato rimandato a domenica, sono entrati soltanto i giornalisti e c’è stata una piccola manifestazione in ricordo delle vittime – 23 – dell’attentato della settimana scorsa. Lo slittamento non deve far pensare male: la Tunisia sta reagendo, e bene. L’obiettivo dell’attentato all’antico museo, rivendicato dallo Stato islamico (i terroristi erano stati addestrati in Libia, la Tunisia chiude un giorno sì e uno no lo spazio aereo ai velivoli libici, tanto è fuori controllo la situazione oltreconfine), era quello di minare la difficile transizione dell’unico paese della regione che è riuscito a trasformare la primavera araba – la prima – in un motore di cambiamento, con tanti tentennamenti, qualche scivolone, ma con la volontà di uscire dal cambio di regime offrendo un modello di stabilità e prosperità agli altri paesi. Nelle prime ore dopo l’attentato, quando il governo aveva detto che la reazione sarebbe stata durissima, molti esperti (che tendono in generale verso il pessimismo: le primavere arabe non le ama più nessuno) dicevano che c’era il rischio di implosione: la repressione e il radicalismo che cova dentro la società tunisina (soprattutto quella che abita lontana dalla costa) avrebbero creato quel cortocircuito che porta alla destabilizzazione permanente.

 

Non sta andando così. Come ha raccontato Larry Diamond sull’Atlantic, “la Tunisia è ancora un caso di successo” ed “è piena di speranze”. A differenza di quanto è accaduto nell’Egitto della Fratellanza musulmana, il partito islamico tunisino, Ennahda, ha partecipato alla creazione di una Costituzione laica e quando c’è stata una crisi politica, nel 2013, con l’assassinio di alcuni esponenti politici liberali, Ennahda ha acconsentito a lasciare la guida del governo ai tecnici. Nonostante l’islam radicale sia ben presente nel paese, come dimostrano i numeri del cosiddetto “esodo jihadista”, quattromila tunisini andati a combattere con lo Stato islamico, ha prevalso il patto istituzionale tra laici e religiosi che condanna ogni forma di estremismo. E’ un equilibrio fragile, considerato quel che c’è appena fuori la Tunisia e in parte del suo territorio – due degli attentatori provenivano da una zona rurale e povera vicino al confine con l’Algeria, un’area che negli anni Novanta conobbe una grande repressione –, ma è comunque una promessa di stabilità unica nella regione. Evitate la repressione e la disunione subito dopo gli attacchi – ci sono state invece manifestazioni pacifiche, una riedizione in piccolo, e senza grande attenzione internazionale, della marcia di Parigi dell’11 gennaio scorso – ora la sfida della sicurezza diventa, oltre che istituzionale, economica. Il turismo rappresenta il 7 per cento del prodotto interno e sarà danneggiato a lungo, visto che per la maggior parte le vittime erano turisti stranieri, ma ci sono anche carenze strutturali gravi, come la disoccupazione, soprattutto tra i giovani (la media del paese è del 15 per cento, non molto più alta di quella europea) e la corruzione. Il progetto democratico tunisino ha bisogno di una spinta economica solida, sia l’Europa sia gli Stati Uniti hanno promesso aiuti e sostegno già dal 2011, ma per ora l’assistenza è stata quasi esclusivamente militare e di intelligence. Indispensabile, certo, ma sono necessari anche altri stimoli per consolidare la Tunisia come un modello cui il mondo arabo possa ispirarsi.

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