Una scritta dello Stato islamico all'ingresso del villaggio di Gornja Maoca, in Bosnia

Il nostro vicino pericoloso? Sono i Balcani dove il jihad va forte

Rodolfo Toè
Tra gli ultimi arrestati, in ordine di tempo, c’erano anche un padre e suo figlio. Ramiz Ibrahimovic, 51 anni, originario di Maglaj, città della Bosnia centrale, aveva combattuto in Siria come volontario, nel 2013. Suo figlio Alaudin, 23 anni, ha perso vista e mani per l’esplosione di un ordigno, quando era ancora bambino.

Sarajevo. Tra gli ultimi arrestati, in ordine di tempo, c’erano anche un padre e suo figlio. Ramiz Ibrahimovic, 51 anni, originario di Maglaj, città della Bosnia centrale, aveva combattuto in Siria come volontario, nel 2013. Suo figlio Alaudin, 23 anni, ha perso vista e mani per l’esplosione di un ordigno, quando era ancora bambino. Sono stati entrambi arrestati un mese fa, nel corso di una retata della Sipa, la polizia speciale bosniaca. L’operazione (denominata “Damasco”) ha condotto davanti alla giustizia oltre venti integralisti islamici con l’accusa di terrorismo. All’inizio di questo mese sono usciti sulla stampa internazionale informazioni preoccupate sulla presenza in Italia di cellule terroristiche simpatizzanti dello Stato islamico provenienti non solo dal medio oriente e dal Nordafrica, ma anche dai vicini Balcani. Secondo la polizia italiana ci sono cellule infiltrate nelle comunità musulmane di Albania, Kosovo, Macedonia e Bosnia in molte città del centro-nord Italia, e la presenza dell’estremismo islamico nella penisola balcanica preoccupa le autorità per la sua vicinanza e per gli accordi di libero transito delle persone presi con l’Italia. La Bosnia è il principale esportatore di jihadisti nella regione, e negli ultimi anni gli allarmi sul coinvolgimento di cittadini bosniaci nel jihad in Siria e Iraq si sono moltiplicati. Il totale, secondo la Cia, oscilla tra 300 e 340 volontari. Il problema del radicalismo nel paese è un sottomondo che ha forti connessioni con il crimine organizzato e che si isola dal resto della comunità islamica, tradizionalmente moderata. “Noi non abbiamo rapporti con loro, né li abbiamo mai cercati”, confidava recentemente Ahmet Alibasic, docente all’Università di studi islamici di Sarajevo: “Se questi si ostinano a vivere nel Medioevo, possono anche smettere di usare l’auto e prendere il cammello”, diceva ironicamente. Negli ultimi anni, però, lo spazio per l’ironia si è ridotto. Per Eset Hecimovic, giornalista locale che a lungo ha lavorato sul tema, “non si tratta più solamente di ‘cretini’ esaltati. La Bosnia Erzegovina può diventare uno dei punti d’ingresso dell’ideologia del jihad in Europa. E' un pericolo che bisogna combattere”.

 

Sono famosi i nomi di paesini, come quelli di Gornja Maoca o di Dubnica, dove poche centinaia di persone si ritirano pur di avere la possibilità di professare l’islam a modo loro. Enclave in cui anche i poliziotti entrano malvolentieri e in cui cominciano ad apparire le bandiere dello Stato islamico, anche se gli abitanti parlano di “manipolazioni”. I capi di queste comunità – Nusret Imamovic e Hussein Bilal Bosnic – sono stati arrestati con l’accusa di reclutare i volontari per la Siria. I primi mujaheddin sono arrivati nei Balcani dai paesi del Golfo, dalla Siria o dall’Egitto. E poi sono rimasti, ottenendo facilmente la cittadinanza. Il loro proselitismo si è  infiltrato nella società, sfruttando l’inadeguatezza delle istituzioni e anche la benevolenza di alcune personalità molto influenti, come quella del Reis Mustafa Ceric, che fu capo della comunità islamica di Bosnia Erzegovina per un ventennio.

 

[**Video_box_2**]L’integralismo islamico, in Bosnia Erzegovina, è divenuto un problema solo dopo l’undici settembre: molti di questi veterani stranieri si videro ritirare la cittadinanza per poi essere espulsi verso il proprio paese d’origine. In sei finirono a Guantanamo. Ora, più di dieci anni dopo, Sarajevo è chiamata a contribuire alla guerra contro lo Stato islamico: a fine 2014 è stata approvata una legge che punisce severamente chi si arruola come volontario. E a inizio marzo, su sollecitazione dell’ambasciata statunitense, il governo ha disposto l’invio gratuito di 500 tonnellate di munizioni per sostenere l’esercito iracheno.