Bakir Izetbegović, del partito musulmano bosniaco, durante un suo comizio a Sarajevo prima delle elezioni (foto AP)

Così la Bosnia torna al 1990: le elezioni non risolvono la crisi d'identità nazionale

Redazione

L’affermazione del partito musulmano di Izetbegović e del filorusso Dodik alle presidenziali dimostra che il paese resta diviso. Mentre l’islam dei Balcani è in bilico tra aspiranti jihadisti e tolleranza.

Sarajevo. Non ha nemmeno atteso i dati ufficiali Bakir Izetbegović, leader dell'Sda (partito storico dei musulmani di Bosnia Erzegovina), per dichiarare la propria vittoria alla presidenza del paese. Lo ha fatto in una nottata confusa, in cui ogni candidato ha annunciato ai giornalisti la propria vittoria, ciascuno sciorinando le sue statistiche.

 

Il voto per la presidenza bosniaca è stato seguito con molto interesse, anche se, di fatto, i poteri di quest'organo tripartito (c'è un rappresentante per ogni 'popolo costitutivo' del paese: serbi, croati e musulmano-bosgnacchi) hanno natura assai limitata. Per interpretare i risultati delle elezioni, quando si parla di Bosnia Erzegovina, occorre guardare piuttosto ai livelli di governo locale, cioè alle due entità (Republika Srpska e Federacija) e ai cantoni di quest'ultima, laddove si annida il vero potere, in un paese reso disfunzionale da una Costituzione imposta dagli accordi di pace di Dayton.

 

"Hanno vinto i partiti nazionalisti", sintetizzano i corrispondenti stranieri. "Siamo tornati al 1990", commentano laconici gli abitanti, di fronte a un voto molto polarizzato e che in effetti ha premiato gli stessi partiti identitari delle prime elezioni libere del paese, quelle che avrebbero poi portato alla guerra.

 

Potevano essere le elezioni del cambiamento, in un paese fiaccato da una disoccupazione al 27 per cento e dai propri debiti: in febbraio, proteste di massa avevano portato alla nascita di assemblee popolari spontanee, i plenum, che avrebbero dovuto formulare delle rivendicazioni nei confronti della classe politica. In maggio, delle alluvioni catastrofiche hanno devastato il paese, inghiottendo circa il 10 per cento del già basso pil locale.

 

Ma i plenum sono rimasti un tentativo di democrazia diretta piuttosto malfermo, che non si è tramutato in un nuovo soggetto politico. E la ricostruzione dopo le alluvioni ha dato occasione, per i partiti, di comprare il sostegno dei cittadini attraverso la distribuzione degli aiuti umanitari.

 

In un'elezione in cui l'affluenza è stata bassissima (54,4 per cento) il primo obiettivo per la classe politica era convincere la gente a votare. Di fronte al fallimento dell'alternativa "civica" (non legata, cioè, a un particolare gruppo etnico), con una socialdemocrazia castigata dagli elettori dopo quattro anni di governo fallimentare, i bosniaci (quelli che si sono recati alle urne, almeno) hanno deciso di votare per senso di appartenenza, riconfermando le divisioni esistenti all'interno della società. In Bosnia Erzegovina i partiti identitari non hanno "vinto". Più corretto sarebbe dire che non se n'erano mai andati. Ancora una volta, il senso di appartenenza ha potuto laddove i programmi elettorali dei candidati (inesistenti, di fatto) non ce l'hanno fatta.

 

[**Video_box_2**]Così, i due principali partiti sono oggi l'Snsd di Milorad Dodik, il leader della Republika Srpska che sopravvive minacciando a intervalli regolari "l'indipendenza da Sarajevo" e che strizza l'occhio a Vladimir Putin, e appunto l'Sda di Bakir Izetbegović. Un partito che vorrebbe rinforzare il governo centrale e che per anni si è puntellato, per costruire il proprio consenso, su una "identità bosgnacca" intesa soprattutto come identità religiosa nell'islam. Un islam travagliato. Se da una parte ci sono le notizie degli ultimi mesi, che parlano di un radicalismo in crescita e di mujaheddin in partenza per la Siria, è anche vero che si tratta comunque di un fenomeno che rimane marginale anche soltanto se comparato agli altri paesi europei. L'islamismo radicale qui è apparso per la prima volta soltanto con la guerra degli anni Novanta e i volontari che dal medio oriente e dall’Africa settentrionale venivano ad aiutare i propri correligionari arruolandosi nel battaglione al Mujahid. C’è chi, nel nome della violenza subita un tempo, oggi arriva a cercare la vendetta. "Dopo le atrocità commesse contro i musulmani in Bosnia", ragionava a inizio settembre Robert Fisk, "non c'è da stupirsi se oggi gli stessi giovani partono per combattere in Siria".

 

D'altra parte, c'è soprattutto l'islam decantato da generazioni di scrittori e giornalisti, quello tollerante che volentieri definiva Sarajevo la "Gerusalemme d'Europa". Quello delle lubenice, come si dice qui, delle angurie: verdi all'apparenza, ma rosse dentro, rimaste fedeli per molti versi al vecchio credo jugoslavo, bratstvo i jedinstvo, fratellanza e unità. "L'islam dei Balcani, che in molti idealizzano, è forse più un islam adattato alla modernità attraverso l'inquadramento nel socialismo jugoslavo, che un islam ottomano", hanno scritto recentemente Jean-Arnault Dérens e Laurent Geslin, giornalisti francesi che da anni si occupano di Balcani. U jedinstvu je snaga era anche lo slogan scelto da Izetbegović, "l'unità fa la forza". Unità dei bosgnacchi, ma anche della Bosnia Erzegovina. Per la fratellanza, invece, il percorso è ancora lungo.