conti pubblici

Il paradosso del Def retrospettivo

Luciano Capone

Nel documento di economia e finanza di "programmazione" ce ne sarà poca: non serve a dirci cosa succederà in futuro, bensì cos’è accaduto l'anno scorso col Superbonus. L'impatto dei crediti fiscali sul debito è il problema di Giorgetti

Quello a cui sta lavorando il ministero dell’Economia sarà l’ultimo Def, visto che il documento andrà in soffitta con le nuove regole fiscali europee. Ma l’ultimo dei Def ha una sorte singolare. Perché non servirà tanto a dirci cosa succederà in futuro, bensì cos’è accaduto nel passato. Ed è qualcosa di paradossale per quello che dovrebbe essere il principale  documento di programmazione della politica economica (una volta, non a caso, si chiamava Dpef). Di programmazione economica e finanziaria per il prossimo triennio qui ce ne sarà poca, dato che tutte le decisioni programmatiche (aggiustamento, scostamento, conferma dei tagli fiscali) sarà rinviato alla Nadef di settembre o, quantomeno, a dopo le elezioni europee.

 

L’unica cosa interessante del Def 2024 saranno i conti pubblici del 2023. Perché al momento, per via della voragine del Superbonus, nessuno sa ancora a quanto corrisponda il deficit dello scorso anno e quanto superiore sarà rispetto al 7,2% annunciato dall’Istat appena un mese fa. Quel dato è certamente superato, perché i crediti fiscali continuano a spuntare fuori a miliardi come i funghi e la speranza, ormai, è che il disavanzo non supererà l’8 per cento. Per caricare sulla piattaforma i crediti d’imposta ceduti del 2023, così ha spiegato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, c’è tempo fino al 4 aprile. Pochi giorni prima della chiusura del documento, che ha una scadenza prevista per il 10 aprile. Sarà pertanto un Def retrospettivo, eppure le stime sul passato sembrano più incerte delle previsioni sul futuro.

 

Un altro aspetto interessante del documento riguarda l’evoluzione del quadro macroeconomico e di finanza pubblica per il 2024. Tre sono le variabili rilevanti: una è la crescita, che sicuramente sarà inferiore all’1,2% previsto dalla Nadef, ma superiore alle stime internazionali che si fermano allo 0,7% (si parla della soglia psicologica dell’1%). L’altra è il deficit, che dovrebbe essere superiore di qualche decimale al 4,3% previsto dalla Nadef, in parte per il lieve calo della crescita e in parte per l’evoluzione della spesa (riuscirà il recente decreto voluto da Giorgetti ad arrestare l’emorragia di bonus edilizi nell’anno in corso?).

Infine c’è il debito pubblico, che subirà nei prossimi anni l’impatto del pagamento delle rate dei bonus edilizi (circa 40 miliardi l’anno nel prossimo triennio, per poi scendere): circa un punto di pil in più l'anno rispetto alle stime precedenti. Secondo alcune proiezioni preliminari, che scontano ancora dati incerti, a differenza delle stime della Nadef che stimavano un calo di un decimale, il debito pubblico nel 2024 dovrebbe salire di un punto percentuale. 

È vero che il livello sarebbe comunque più basso del previsto, dato che il governo prevedeva nel 2023 un rapporto debito/pil al 140,2% mentre la recente revisione dell’Istat (soprattutto per effetto del deflatore del pil) lo ha abbassato al 137,3%. Ma sarebbe comunque un campanello d’allarme, perché del debito più del livello preoccupa la sua evoluzione: se sale, anziché scendere. È probabile che, facendo e rifacendo i conti, aggiustando i vari parametri e magari spingendo di più sulle privatizzazioni, alla fine nel Def il governo cercherà di mostrare un debito stabilizzato o quasi. Ma la situazione non è affatto semplice, soprattutto se si considera che per la prossima legge di Bilancio Giorgetti dovrà trovare almeno 15 miliardi di euro solo per confermare il taglio del cuneo fiscale.

 

Quasi certamente l’Italia entrerà in procedura d’infrazione per deficit eccessivo, con paesi come la Francia, ma questo di per sé non complica molto la situazione. Perché il governo dovrà fare un aggiustamento fiscale che dipenderà da quanto sarà alto il deficit e da come andranno le negoziazioni, ma comunque attorno a 0,5-0,7 punti di pil annui. Cioè, più o meno quanto il governo Meloni si era già impegnato a fare con la Nadef, promettendo un rientro sotto il 3% entro il 2026.

La situazione è sicuramente più deteriorata rispetto a pochi mesi fa, ma la politica italiana non sembra rendersene conto. Mentre sui mercati si inizia a dubitare persino dell’evoluzione del debito degli Stati Uniti, che è su una traiettoria insostenibile visti gli ampi deficit prima di Trump e poi di Biden (secondo il Congressional budget office il debito salirà dall’attuale 97% al 116% nel 2034). Mentre in Francia, dopo il deficit più elevato del previsto, il presidente Emmanuel Macron e il ministro delle Finanza Bruno Le Maire annunciano tagli per mantenere l’impegno del deficit sotto il 3% entro il 2027, da noi il problema non è sentito.

 

Nonostante un deficit che si avvicina all’8% (oltre il doppio della media dell’Eurozona), l’opposizione già protesta contro l’“austerità” mentre la presidente Meloni dice che con il nuovo Patto si Stabilità l’Italia potrà spendere “35 miliardi di euro in più” ogni anno. Nessuno vede il debito come un problema, nessuno ha come priorità il riordino della finanza pubblica. Ora i mercati finanziari sono tranquilli e lo spread è basso, ma l’Italia resta un anello debole della catena. In caso di uno choc, di una crisi di sfiducia, il risveglio potrebbe essere brusco e poco piacevole.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali