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I dati

L'occupazione è forte ma le paghe sono basse: la distanza con l'Europa è sui salari

Bruno Anastasia e Marco Leonardi

Troppi part-time e pochi posti sopra i 40 mila euro. Affrontiamo i veri problemi legati al tema del lavoro. Un'analisi 

È noto che negli ultimi mesi il numero degli occupati  e il numero dei dipendenti con contratti a tempo indeterminato hanno raggiunto il valore massimo da quando esistono le statistiche in Italia. Invece di concentrarsi sul tema dei bassi salari – salario minimo legale per i lavoratori a basso reddito e rinnovo possibilmente generoso dei contratti per tutti – ci si accanisce a dimostrare l’indimostrabile, ovvero che le quantità di lavoro sarebbero in verità in calo. E così l’aumento dell’occupazione sarebbe fasullo perché le ore lavorate totali sono tuttora inferiori al picco 2007-2008; i dati sull’occupazione sarebbero gonfiati dalla presenza in crescita di cassaintegrati; il lavoro part-time e i contratti a termine sarebbero in crescita (ci sarebbero  addirittura 11 milioni i precari!). 


Non è utile piegare l’analisi economica alla volontà politica di rilanciare un referendum sui contratti a termine e sul Jobs act (aspettiamo di vedere i quesiti) quando i veri nodi di questa fase ruotano intorno alla questione salariale. Si tratta dei salari dei lavoratori marginali – quindi la battaglia per il salario minimo legale; della mancanza di carriere adeguatamente retribuite per i giovani; del rinnovo dei contratti nazionali e della distribuzione dei profitti attraverso la contrattazione decentrata nelle imprese grandi e medie. Ognuna di queste battaglie richiede uno sforzo eccezionale che verrebbe vanificato se l’obiettivo venisse spostato verso un problema che non c’è. Infatti le ore lavorate (quelle da lavoro dipendente, che sono le uniche che contano se il problema fosse davvero la crescita del precariato) sono state nel 2023 ben maggiori sia rispetto al 2007-2008 sia rispetto al 2019; è vero che i cassaintegrati per un periodo inferiore a tre mesi sono considerati occupati, ma fortunatamente anche nel 2023 sono diminuiti rispetto al 2022 (per non parlare ovviamente del confronto con il 2020-2021); i dipendenti a tempo indeterminato sono cresciuti molto più di quelli a tempo determinato, tanto che l’incidenza dei dipendenti a termine sul totale dipendenti da agosto 2023 è scesa sotto al 16 per cento. Quanto al part time, ha certamente conosciuto un’esplosione negli ultimi 20 anni, ma tutta la crescita occupazionale post-Covid è dovuta al tempo pieno. 


I salari bassi italiani da lavoro dipendente, anche rispetto agli altri principali paesi europei (in particolare la Francia), sono imputabili a tre fenomeni: le poche ore lavorate per il numero alto di part time; le discontinuità dovute ai lavori a termine (stagionalità legata al turismo; supplenze nelle scuole etc.) e – tra i lavoratori full time – la mancanza di posizioni alte, con salari sopra i 40 mila euro lordi annui: nel 2021 in tale condizione è risultato solo il 9 per cento dei dipendenti. Il primo fenomeno è frequente nelle piccole e piccolissime imprese e non di rado si accompagna a comportamenti illegali/irregolari; il secondo attiene alla struttura produttiva italiana e, nel caso del settore pubblico, a irrisolte questioni strutturali di lungo periodo; il terzo è un tema rilevante soprattutto per le medie e grandi imprese e la loro capacità di offrire percorsi di carriera e retribuzioni conseguenti. 


Sono fenomeni ai poli opposti del mercato del lavoro dipendente, ma tutti concorrono a far sì che la media dei salari sia trainata verso il basso. Se invece guardiamo nel mezzo della distribuzione dei salari, al livello base dei principali contratti per posizioni full-time, non ci sono differenze apprezzabili con la Francia. Le implicazioni sono chiare sebbene le soluzioni non siano ovvie: va affrontato il problema del part time (e soprattutto quello dei part time minimi con pochissime ore) e va incentivata l’apertura di posizioni da lavoro dipendente sopra i 40 mila euro annui. Quest’ultimo tema ha a che fare con attrarre nuove imprese e rinnovare le gerarchie aziendali (uno studio su dati Inps mostra come i giovani siano sempre più spinti in fondo alle gerarchie aziendali da 20 anni a questa parte), ma probabilmente anche con il trattamento fiscale di favore riservato in Italia ai lavoratori autonomi a relativamente alto reddito (fino a 85 mila euro lordi). Ciò fa sì che convenga sia all’azienda sia al lavoratore un rapporto di lavoro autonomo piuttosto che dipendente sopra i 40 mila euro lordi: questo è un caso unico in Europa. 


Procedere per legge è sempre foriero di rischi, basti ricordare che in Francia hanno impedito per legge i contratti part time inferiori alle 26 ore settimanali ma uno studio di una francese di Princeton ha valutato che questa norma ha penalizzato le donne: invece di due donne part time, in molti casi si è preferito un uomo full time. Si possono fare diverse cose per contrastare/arginare il part time involontario: dai controlli al salario minimo legale, alle integrazioni del reddito per chi lavora poche ore. Basta volerlo e non sbagliare analisi e obiettivi, accecati dall’ideologia.
 

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