Catalogo dei 257 salvataggi pubblici nella storia d'Italia, il paese dove imprese e banche non falliscono mai

Oscar Giannino

Un salvataggio ogni sette mesi, in media. Ecco la prima bozza sistematica di dati per capire quanto abbiamo scialacquato dal 1861 al 2021. Il fallimento di mercato nel nostro paese non è considerato fisiologico ma come qualcosa da evitare a tutti i costi. Ecco perché i balzi tecnologici e di produttività stentano ad affermarsi

Duecentocinquantasette salvataggi pubblici, più un multiplo pari a 4-5 volte di interventi di sostegno successivi e collegati negli anni ai salvataggi iniziali. Finalmente possiamo contare su una prima bozza sistematica di dati che consenta a studiosi, politici e cittadini di capire quanto continuato e scialacquatore sia stato, dal 1861 al 2021, il ruolo improprio dello stato per evitare la bancarotta di imprese bancarie, industriali e di ogni altro tipo. Non c’è una banca dati pubblica che aggiorni sulla massa di oneri pubblici generati ogni volta che lo stato interviene. E infatti la prima bozza sistematica è parte di un progetto più ampio di studio sull’economia italiana avviata dal professor Nicola Rossi col sostegno dell’Istituto Bruno Leoni, una prima elaborazione del quale si troverà in Reframing Italian Economic History, 1861-2021. Creative Destruction and the Italian Society, prossimamente in uscita per Palgrave Macmillan.

 

Chi intanto è curioso di approfondire la metodologia con cui è stato possibile raccogliere, catalogare e stimare, in termini di oneri pubblici e di risultato successivo, i 257 salvataggi pubblici può trovarli nelle 26 pagine del saggio pubblicato dal professor Rossi sull’ultimo numero della Rivista italiana di Storia economica del Mulino, e nelle fittissime 40 pagine di appendice in cui ogni maggior evento viene ricostruito sia per stime sia per analisi.

 

Nicola Rossi è un economista serio, non un polemico pamphlettista. Di conseguenza nel saggio e nelle ricchissime note trovate abbondanza di richiami alla letteratura economica che, intorno ai salvataggi di stato, nel Novecento e sin qui hanno scritto ponderosi saggi a favore, vuoi per evitare crisi sistemiche nel credito, vuoi per preservare patrimoni tecnologici, fino all’inflazionata “strategicità nazionale sovranista” che ci ha condotto alla superfetazione dei poteri di golden power. Ma intanto è impressionante come questo, sia pur incompleto, catalogo non registri fenomeni di addensamento temporale nelle fasi di grande crisi, quella bancaria nel primo ventennio del Novecento e quelle industriali da metà degli anni Settanta a oggi. In Italia a differenza che nei paesi anglosassoni (anche per loro le banche dati sono però incomplete) i salvataggi pubblici sono un continuum temporale, uno ogni sette mesi in media. Dal Consorzio Sovvenzione Valori Industriali fino all’Iri, all’Efim, all’Egam e ai Fondi finanziari pubblici per la siderurgia, la meccanica e la chimica negli anni Sessanta e Settanta, lo stato ha evoluto gli strumenti con cui salvare imprese a suo piacimento. Ma la loro operatività è stata continuata, non eccezionalmente riservata a stime ben ponderate ex ante, ma sotto la potente pressione di richieste private, sindacali e mediatiche, oltre che ovviamente per ragioni di consenso politico. La sola storia di Alitalia elenca negli ultimi 50 anni ben 18 diverse operazioni di sostegno straordinario pubblico per evitarne la crisi, con Ilva si cominciò ai tempi della guerra di Libia, centodieci anni fa… La prima stima aggregata degli oneri a carico dei contribuenti, sommando le cifre caso per caso, non solo per anno, di competenza dell’intervento, ma anche quelle manifestatesi a seguire, si colloca a prezzi correnti attuali intorno a 550 miliardi di euro: un quinto del totale del debito pubblico italiano attuale. Senza comprendere il conto che non è ancora possibile fare, cioè i costi finali pubblici dei circa 300 miliardi di euro di garanzia pubblica che lo stato italiano ha riservato nel Covid in diverse modalità al sistema delle imprese. 

  
Invitandovi alla lettura, mi limito a tre osservazioni di fondo. La prima è che gli economisti capaci di seria critica contro questa prassi sistemica sono stati pochi, nella storia unitaria. Su tutti Francesco Ferrara, Maffeo Pantaleoni, Luigi Einaudi, Luigi Sturzo. Nel keynesismo postbellico e tornata di moda oggi la “politica industriale pubblica”, le analisi contundenti si sono rarefatte. La seconda osservazione è che sì, in Italia culturalmente il fallimento di mercato non è considerato un fisiologico meccanismo schumpeteriano ma va evitato il più possibile: anche la Cigs serve da sempre a questo, non alla mobilità di lavoratori riaddestrati. La terza è che tale pregiudizio spiega perché da noi i balzi tecnologici e di produttività stentano ad affermarsi. Il che spiega perché una banca dati di questo tipo venga messa in piedi da chi si pone seriamente il problema della perdurante stagnazione di crescita e produttività nel nostro paese.          
   

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