Valdis Dombrovskis e Bruno Le Maire parlano dopo l'ECOFIN a Bruxelles (Foto AP/Olivier Matthys) 

Meno debito nazionale, più debito comune. Lo scambio che l'Italia dovrebbe proporre all'Ue

Marco Leonardi

L'ipotesi di uno scambio alla pari tra una regola meccanica di riduzione del debito nazionale a patto di un aumento equivalente di debito comune europeo per far fronte alle spesa militari, di politica industriale e di adattamento all’andamento demografico

Le nuove regole del Patto di stabilità sono ancora in via di approvazione definitiva e già le nuove stime di crescita al ribasso fanno ritenere che sarà difficile rispettarle per l’Italia. Il compromesso raggiunto sui nuovi parametri per il debito e il deficit è una sovrapposizione di due linee di pensiero differenti e, forse, alla lunga  incompatibili.  La prima afferma il principio che sono i singoli paesi a decidere la strada del rientro del debito. L’idea del piano pluriennale è sicuramente corretta: molto meglio che stabilire i numeri del rientro anno per anno e ogni anno disfare quello che si era fatto l’anno precedente. La seconda linea di pensiero invece indica una riduzione meccanica (-1 punto percentuale all’anno) del debito per assicurare che non ci siano tentazioni (soprattutto dell’Italia) di invertire la rotta. La sovrapposizione di questi due principi ha creato un compromesso tutto politico: si accontenta la Germania sulla rigidità del meccanismo di rientro e al contempo si accontentano l’Italia e la Francia con un’esenzione dalle regole meccaniche di rientro fino alla fine di questa legislatura. Ci sono state mille discussioni sui dettagli tecnici della riforma tra chi sostiene che siano più o meno rigide di prima: la verità è che la flessibilità delle nuove regole si vedrà soltanto sul campo. Basti pensare che  il sentiero di rientro pluriennale può essere ricontrattato per regolamento a ogni cambio di governo per capire che per l’Italia vorrebbe dire in media ogni due anni.

   
Il punto vero quindi non è se queste regole siano più o meno rigide di prima, in realtà probabilmente sono la stessa cosa, anche prima le regole erano formalmente rigide ma in pratica spesso flessibili a seconda della forza contrattuale dei governi. Il punto vero è se l’Italia davvero vuole impegnarsi a ridurre il debito. Per diminuire il rapporto debito-pil si è sempre contato sul denominatore, ovvero sulla crescita (che non arrivava mai). Nessun governo, dal 2014 in poi, si è mai impegnato seriamente a ridurre la spesa o aumentare le tasse per aggiustare i conti. Quando è arrivata la pandemia, e  poi la crisi del costo dell’energia, la spesa pubblica è giustamente molto aumentata ed era plausibile che una spesa pubblica così alta sarebbe stata  molto difficile da ridurre. C’è da dubitare che ci sia la volontà politica di ridurre il debito, anzi c’è da scommettere che le nuove regole fiscali verranno “stirate” al massimo, usando ogni possibile eccezione per fare il massimo debito possibile. 

  
D’altra parte, chi desidera una maggiore disciplina fiscale, non fa i conti con un fatto di cui pochi parlano. Negli Stati Uniti, chiunque vinca le prossime elezioni, Biden o Trump, prevarrà una visione diversa della fiscalità pubblica rispetto al passato: molto più benevola verso un alto debito pubblico. Anche negli Stati Uniti (come l’Europa) in questi ultimi due anni la politica ha molto aumentato il debito pubblico, ma non vuole affatto ridurlo quanto, piuttosto, per ragioni demografiche (spesa sanitaria) o per ragioni di spesa militare o di spesa per la politica industriale o perfino per ridurre le tasse se dovesse vincere Trump, lo lascerà ben aumentare. Tanto che il Congressional Budget Office prevede un aumento del debito federale di ben 20 punti percentuali nel prossimo decennio: dal 97 per cento del 2023 al 116 per cento del 2034 (per non dire del debito totale della Pa che sta già adesso sopra il 120 per cento).

  
Questa situazione mette in evidenza la discrasia delle politiche europee fin da subito: il vero problema non è tanto quello di ridurre i debiti nazionali, quanto piuttosto pensare di aumentare il debito comune europeo per far fronte alle spese militari, di politica industriale e di adattamento all’andamento demografico (per esempio le spese sanitarie). Visto che il problema europeo è la riduzione soprattutto del debito italiano, per noi sarebbe perfettamente inutile insistere su regole fiscali nazionali, si dovrebbe invece proporre uno scambio alla pari tra una regola meccanica di riduzione del debito nazionale a patto di un aumento equivalente (o comunque commisurato) di debito comune europeo per far fronte alle necessità di spesa comune.  Per ora questo trade-off non si pone perché la Germania è ancora contraria e ha sempre inteso (e scritto) che il Pnrr è  un programma one-off: una volta e mai più. Ma l’opportunità di uno scambio potrebbe porsi presto e a quel punto proprio l’Italia dovrà essere pronta. Il governo non pare avere fiducia nel debito e negli investimenti comuni europei, preferisce il debito nazionale, ma così facendo fa una battaglia inutile e dannosa perché il debito nazionale non ce lo faranno aumentare e comunque non servirà a finanziare le spese che servono. 

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