Bandiere dell'Unione Europea - foto Ansa

L'analisi

Il nuovo Patto di stabilità non funzionerà. Ecco perché è una buona notizia

Renato Brunetta

Dopo l'approvazione da parte dei 27 del nuovo accordo, la cosa più probabile è che tutti gli stati continueranno a non rispettare regole impossibili, ma la tendenza all’obiettivo sarà raggiunta. Il punto su merito e metodo dello strumento

Che fine ha fatto il nuovo Patto di stabilità e crescita? La domanda è lecita, dal momento che non può non apparire bizzarro come un dossier che è stato in cima all’agenda Ecofin (anche se non del Consiglio Europeo) per due anni, finisca così in sordina, in questa prima parte del 2024, tra le pieghe di una trilogia (ovvero l’insieme dei triloghi, negoziati informali cui prendono parte alcuni rappresentanti di Parlamento, Consiglio e Commissione) opaca e all’apparenza inconcludente, ancora alla ricerca di ulteriori compromessi di merito, con al centro sempre la durata dei periodi di rientro dal debito e dal deficit, come vedremo più avanti. L’unica certezza, ad oggi, è che del nuovo Patto (la terza reincarnazione dopo la prima riforma del 2005 voluta e imposta da Schroeder, e quella del 2011-2014 figlia della crisi dei debiti sovrani e voluta sempre dalla Germania), nel calendario dell’aula a Strasburgo non c’è proprio traccia. Tutto rinviato a dopo le elezioni del Parlamento Europeo? Non proprio, perché pare che vi sia una convergenza per farlo entrare in vigore a luglio di quest’anno, in modo da rimettere in carreggiata il semestre di bilancio dell’anno in corso. Misteri imperscrutabili del barocco processo decisionale europeo. Possiamo dunque approfittare di questa pausa di riflessione per fare il punto su merito e metodo di uno strumento (il Patto di Stabilità e Crescita) e della sua riforma di cui si è detto tutto il male possibile, ma che continua a condizionare la vita economica ed istituzionale dell’Unione.
 

Un po’ di storia. Il Patto di Stabilità e Crescita, un regolamento comunitario sottoscritto dai paesi Membri della Ue nel 1997, nacque con l’intento di dare continuità ai parametri di finanza pubblica introdotti dal Trattato di Maastricht (1992), prodromici all’introduzione della moneta unica. I famosi “parametri di Maastricht” erano stati voluti dai padri fondatori dell’euro allo scopo di creare una convergenza nei percorsi di finanza pubblica degli Stati membri, che partivano da situazioni molto diverse tra loro. Mentre i paesi Nordici godevano di finanze pubbliche caratterizzate da bassi livelli di deficit e debito, quelli dell’Europa meridionale presentavano una situazione completamente opposta.
 

Questa asimmetria era ritenuta rischiosa. Secondo la teoria delle “aree valutarie ottimali”, elaborata da Robert Mundell in assenza di una tale convergenza tra i Paesi aderenti ad una area valutaria, una valuta comune avrebbe ben poche chances di sopravvivere, in presenza di quelli che, in macroeconomia, sono definiti “shock asimmetrici” (differenti livelli di inflazione, mercati del lavoro e dei capitali molto eterogenei). Da qui, la volontà di dotare l’eurozona di regole numeriche e parametri in grado di assicurare il raggiungimento di questa convergenza.
 

Negli anni che trascorsero tra Maastricht e l’introduzione dell’euro questa convergenza venne raggiunta davvero. Visto il successo, il passo successivo fu quello di introdurre regole durature che assicurassero il mantenimento della convergenza, adattate all’evoluzione del contesto economico. Vennero così introdotte procedure più specifiche, come quella sugli aggiustamenti strutturali “close to balance”, per scontare gli effetti del ciclo economico e delle riforme dai percorsi di convergenza cui erano vincolati gli Stati e dalla procedura per i disavanzi eccessivi (PDE). Nel 2012 venne poi firmato il Fiscal Compact, un trattato inter-governativo con il quale l’architettura del braccio preventivo e correttivo del Patto venne rafforzata con regole ancora più restrittive, come quella famosa della percentuale minima di riduzione annua del debito pubblico (pari a 1/20mo della differenza tra il livello attuale del debito e il livello di riferimento del 60%). 
 

Questo sistema di regole ha funzionato? Il Patto è stato un successo? Non è facile rispondere a queste domande. Per poterlo fare, infatti, bisognerebbe essere in grado di valutare con esattezza cosa sarebbe l’Europa oggi senza quelle regole, o chiedersi se l’euro sarebbe sopravvissuto in assenza dei parametri di Maastricht. In assenza di un controfattuale, l’elaborazione di una risposta è impossibile. Tuttavia, se si crede che l’introduzione dell’euro abbia rappresentato uno dei più grandi progressi che l’Europa abbia vissuto, è possibile fare alcune considerazioni.
 

Si sente dire spesso che il fallimento del Patto stia nella constatazione che le sue procedure e sanzioni non sono mai state applicate sino in fondo, né nei confronti dei numerosi Paesi che non hanno rispettato la riduzione di deficit e debito (a partire da Francia e Germania alla fine degli anni ‘90), né nei confronti di quelli che non hanno rispettato gli equilibri macroeconomici sui surplus commerciali (Germania). Se le vecchie regole non sono mai state rispettate fino in fondo, difficilmente si può credere che saranno rispettate quelle nuove. D’altronde, può mai essere politicamente credibile il sanzionare degli Stati sovrani? Queste difficoltà potrebbero creare sfiducia circa il successo del nuovo Patto, con il rischio che si finisca col ritenere che nessun Patto possa funzionare. Eppure, guardando ai dati, una ragione d’ottimismo c’è, perché, faticosamente e lentamente, un miglioramento delle finanze pubbliche europee si è osservato davvero, almeno fino al 2020, anno in cui la pandemia ha affossato questo percorso virtuoso. La “tendenza” al rientro all’interno dei parametri, per usare un termine caro a Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi, si è dunque verificata. A fallire è stato il pedissequo rispetto di una sempre più contorta architettura di regole che ha complicato a dismisura i parametri di Maastricht nel corso degli anni. A dimostrazione che il non rispetto del Patto era un credo comune a tutti i leader europei, se non limitatamente alla “tendenza” agli obiettivi di deficit e debito, c’è l’evidenza che a tutti faceva comodo tanto il far credere di volerlo rispettare, quanto il non farlo. Un equilibrio del gioco che annoverava anche i mercati finanziari ed era basato su una comunicazione informale (in teoria dei giochi definita “cheap talk”), che ha sempre funzionato, almeno fino alla pandemia. Una “ipocrisia razionale” tra gli Stati del Nord, che insistevano per la costruzione di un sistema basato su parametri quantitativi stringenti, e quelli del Sud, che sposavano l’approccio della tendenza all’obiettivo. Costruttivisti versus tendenzialisti. Una partita finita in pareggio, perché, proprio grazie alla ipocrisia razionale, la Ue ha introdotto regole che già a priori sapeva non sarebbero state rispettate. Eppure, questa strategia ha funzionato e, paradossalmente, ha ugualmente prodotto il risultato atteso, quello del miglioramento delle finanze pubbliche.
 

Per fare un esempio, l’Italia, nel 2019, era arrivata molto vicina al pareggio di bilancio, avendo un rapporto deficit/pil pari soltanto all’1,6%, il livello più basso dal 2007, con la previsione di ridurlo ulteriormente negli anni successivi. Certo, non era riuscita a rispettare anno per anno le regole di finanza pubblica, ma la tendenza all’agognato “close to balance” era stata rispettata. L’improvviso arrivo del Covid ha poi sparigliato le carte e il governo è stato costretto ad un intervento monstre che nel 2020 ha fatto lievitare il rapporto al 9,6%, mentre il rapporto debito/pil ha toccato il record del 155%. Dal 2021, tuttavia, pur mantenendosi su livelli superiori a quelli del 2019, il rapporto ha gradualmente ripreso a scendere: l’Italia si è quindi incanalata nuovamente nella giusta tendenza di discesa verso l’obiettivo.
 

L’altra critica sollevata contro il Patto è che esso sia troppo squilibrato nei confronti dell’obiettivo “stabilità” a danno della “crescita”. I seguaci di questa linea ritengono che regole troppo sfidanti su deficit e debito producano una spirale deflattiva nell’economia europea, in particolare nei Paesi più indebitati, non creando condizioni macroeconomiche favorevoli alla crescita e facendo perdere competitività all’Europa. Mentre è indubbio che queste regole abbiano contribuito a tenere l’inflazione e i differenziali inflazionistici sotto controllo (al netto della fiammata inflazionistica post-Covid, alimentata però da fattori del tutto esogeni), si accusano le istituzioni europee di aver sacrificato la crescita in nome dell’inflazione e dell’ordine dei bilanci. Anche in questo caso, l’assenza di un controfattuale rende impossibile una risposta. Certamente, alcune regole introdotte, come quella dell’1/20mo, sono risultate, per ammissione stessa della Commissione, del tutto inattuabili. Tanto è vero che nel nuovo Patto sono state finalmente tolte. Anche la “contabilità degli aggiustamenti strutturali”, che sta alla base dei calcoli dei parametri di bilancio, si è rivelata inefficace, complessa, una vera e propria aporia del tutto slegata dalla necessità che invece si avrebbe di avere regole semplici e direttamente osservabili. Frutto, l’aporia, di quel costruttivismo fiscale che ha trionfato nei corridoi di Bruxelles e che rappresenta una deviazione patologica del pensiero keynesiano sui cicli economici, dove variabili quali pil, deficit e debito non rimangono semplici dati di contabilità ma elementi da calcolare addirittura nel loro valore “potenziale”, “ciclico” o “strutturale”, secondo criteri sui quali non si è trovata una convergenza. Ma anche questa aporia è stata fortunatamente corretta, con l’adozione di un parametro direttamente osservabile, quello della crescita della spesa nominale.
 

Ma vediamo più nello specifico come è stato modificato il Patto. Lo scorso 20 dicembre, l’Ecofin ha raggiunto un compromesso sulla riforma delle regole di bilancio che l’Europa attendeva da anni e che si rendeva più che mai necessaria dopo la pandemia, durante la quale il vecchio Patto era stato sospeso per dare la possibilità ai governi di intervenire con una adeguato supporto fiscale a cittadini e imprese.
 

Dopo l’accordo politico in Consiglio, il testo è passato al “trilogo” con Commissione e Parlamento. Ma quali sono le principali novità dell’accordo? Rispetto alla proposta iniziale della Commissione, sono stati introdotti due importanti vincoli. Il primo, sul debito, prevede che i piani di rientro debbano garantire, durante il periodo di aggiustamento, una diminuzione del rapporto debito/pil mediamente di almeno un punto percentuale all’anno. Una restrizione molto significativa rispetto alla formulazione originaria della Commissione che prevedeva una riduzione del rapporto soltanto alla fine, e non nel corso, del periodo di aggiustamento. La regola quantitativa è, poi, applicata indiscriminatamente a tutti i Paesi con un rapporto debito/pil superiore al 90%. Il secondo vincolo è sul deficit, che non dovrà più soltanto rimanere al di sotto della soglia del 3%: i Paesi con un rapporto superiore al 90%, infatti, alla fine del percorso di aggiustamento dovranno garantire una riduzione al di sotto della soglia dell’1,5%, un risultato parecchio ambizioso.
 

Si tratta di un compromesso ragionevole? Se ci chiediamo nell’ottica di cosa sia bene per l’Unione, la risposta è affermativa. Per il think tank Bruegel, ci sono molti punti favorevoli dell’accordo: 1) l’introduzione di percorsi di aggiustamento specifici per Paese, con un periodo compreso tra i 4 e i 7 anni e determinati sulla base dell’analisi di sostenibilità del debito (DSA nell’acronimo inglese), è stata preservata; 2) la spesa al netto degli interessi e delle voci rappresentative del ciclo economico è stata mantenuta come benchmark, assieme alle clausole di salvaguardia generali e nazionali. Ciò dovrebbe rendere l’impianto delle regole meno pro-ciclico; 3) la DSA, gestita dalla Commissione, dovrà essere approvata, pubblicata e replicata dal Consiglio, aumentando la democraticità del processo decisionale; 4) la “salvaguardia del debito” è stata riformulata. Il periodo durante il quale viene valutata la riduzione del debito inizia solo dopo che un Paese avrà ridotto il deficit al di sotto del 3%, consentendo ai Paesi ad alto deficit, tra i quali l’Italia, la possibilità di rispettare la clausola; 5) i Pnrr nazionali non saranno sufficienti a garantire un’estensione del periodo di aggiustamento da 4 a 7 anni. Ai Paesi sarà richiesto di portare avanti le riforme e gli investimenti finanziati a livello nazionale per il resto del periodo di quattro-cinque anni coperto dal piano a medio termine. Ciò genera buoni incentivi per aumentare la crescita; 6) allo European Fiscal Board è assegnato un ruolo significativo nel monitorare l’attuazione delle nuove regole.
 

I punti sfavorevoli, invece, sono i seguenti: 1) l’Ecofin ha introdotto una clausola di “salvaguardia per la resilienza del deficit” che costringerà i Paesi maggiormente indebitati a proseguire il percorso d’aggiustamento fino al raggiungimento di un “margine di resilienza comune” (1,5% del pil), ben al di sotto della soglia del 3%. L’idea non è sbagliata, ma un margine così basso potrebbe rivelarsi troppo oneroso per alcuni Paesi (l’Italia, data l’elevata spesa per interessi, dovrebbe conseguire un saldo primario strutturale superiore al 4,0%); 2) permane l’incertezza sull’attuazione della PDE. Le soglie minime di aggiustamento annuale (0,5% del pil) escludono la spesa per interessi solo fino al 2027. L’aggiustamento sarà così quasi totalmente a carico dei governi che verranno dopo il 2027; 3) l’esclusione dall’applicazione delle salvaguardie del finanziamento degli investimenti pubblici è limitata ai soli progetti Pnrr ed al cofinanziamento nazionale dei fondi Ue per gli anni 2025 e 2026; 4) il ruolo delle istituzioni fiscali nazionali indipendenti (per l’Italia l’UPB) è stato notevolmente indebolito; 5) alla Commissione è stata attribuita una eccessiva discrezionalità decisionale, per effetto della quale essa diventa un interlocutore politico ma allo stesso tempo si pone in una situazione di contraddizione tra regolatore imparziale e corresponsabile del piano di rientro.
 

Quanto costerà il nuovo Patto? Sempre secondo le stime di Bruegel, l’Italia è il Paese che dovrà effettuare l’aggiustamento più pesante, pari a ben il 3,7% del pil nel caso questo fosse concluso in 4 anni e al 3,4% in 7 anni. Ogni anno, quindi, il governo dovrà effettuare un aggiustamento pari all’1,15% (nell’ipotesi 7 anni) o dello 0,61% (nell’ipotesi 4 anni). Questa asimmetria potrebbe comportare una violazione del principio regolatorio del level playing field, creando vincitori e vinti tra i vari Paesi. Quelli che dovranno fare un aggiustamento più blando disporranno infatti di maggiori spazi di bilancio per finanziare la propria economia.
 

In definitiva, le regole su cui ci cerca l’accordo appaiono ancora più confuse di quelle che si volevano semplificare. Si spera che nel trilogo esse possano essere semplificate. Peraltro, il compromesso raggiunto all’Ecofin non muta la debolezza di fondo della riforma che era stata proposta dalla Commissione, debolezza che riguarda due fondamentali temi. Il Patto continua ad essere un sistema di regole basato sulla sfiducia reciproca tra gli stati membri, con l’obiettivo che nessuno danneggi gli altri creando instabilità finanziaria, ma non affronta minimamente il tema di un coordinamento delle politiche fiscali e industriali dei singoli paesi
 

Ciò è grave, permanendo l’assenza di una capacità fiscale centrale e di un’autorità di politica fiscale europea in grado di coordinarsi con la politica monetaria. Le nuove regole non concedono uno spazio significativo alla composizione della spesa pubblica nelle sue due componenti di parte corrente e in conto capitale. Non accettando una qualche forma anche ridotta di golden rule, l’impianto del nuovo Patto appare debole a fronte delle sfide europee. La considerazione abbastanza paradossale è quindi che nel momento in cui gli Stati membri non accettano di esentare la spesa nazionale per favorire gli investimenti di cui l’Europa ha bisogno (transizione climatica, digitale, difesa e sicurezza), alzano di fatto la posta politica della partita, perché si legano le mani ad una sola opzione residuale, ossia quella per cui tali spese dovranno essere fatte a livello di bilancio dell’Unione. A meno, di nuovo, di pensare che queste regole alla fine non saranno comunque rispettate. Positivo, invece, è l’obbligo richiesto agli Stati di una pianificazione pluriennale della spesa, su un’agenda di riforme e investimenti concordata con la Commissione, una ‘istituzionalizzazione’ del modello di governance adottata per il Pnrr. Oltre alla maggiore trasparenza sulla gestione della finanza pubblica che deriva da un criterio di evoluzione della spesa nel tempo: comunicare un obiettivo di deficit implica infatti poca contezza sulla composizione di entrate e uscite, limitandosi la comunicazione al saldo risultante.
 

E ritorniamo, infine, alla domanda che ci siamo posti. Il Patto è davvero utile? La conclusione è amaramente ironica, se diciamo che esso ha funzionato bene soltanto quando è stato sospeso, ovvero nel periodo pandemico. Ma non arriviamo a tanto. Per il resto, ha semplicemente funzionato, anche se non bene. E, ne siamo convinti, funzionerà non bene anche quello nuovo. Gli Stati continueranno a non rispettare regole impossibili, ma la tendenza all’obiettivo sarà raggiunta (più o meno), nella consapevolezza che questa situazione vada bene anche ai mercati. Perché le ipocrisie, se usate razionalmente, a volte servono. Insomma, per il nuovo Patto nulla di nuovo, e si direbbe “tanto rumore per nulla” e ancora tanta ipocrisia. Anche se in questo momento di crisi avremmo forse avuto bisogno di più coraggio e determinazione. Sarà per la prossima volta. Se ci sarà…
 

Renato Brunetta, presidente del Cnel

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