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Dal volume "Talenti e Capitali"

Idee per non sprecare il risparmio italiano

Victor Massiah

Imprese troppo piccole. Debito troppo alto. Incentivi eccessivi sui titoli di stato. Pochi investimenti diretti esteri. Il sistema bancario è sano ma non aiuta l’Italia a essere più attrattiva

L’articolo che segue è tratto dal volume “Talenti e Capitali” di F. Brioschi e S. Paleari (Francesco Brioschi Editore, 2023). Victor Massiah è un manager, docente di Gestione bancaria alla Cattolica di Milano ed è l’ex amministratore delegato di Banca Ubi.
 



Il risparmio detenuto in forma finanziaria dagli italiani a fine 2022 era stimabile in circa 5.300 miliardi di euro. Nel medesimo periodo il risparmio depositato e amministrato presso le banche italiane ammontava intorno ai 4.300 miliardi, di cui circa 2.200 erano depositati in conti correnti bancari o investiti in obbligazioni bancarie. Complessivamente, questi depositi costituiscono “la raccolta diretta” delle banche italiane. La “raccolta indiretta”, amministrata e gestita, rappresenta invece il totale degli investimenti in singoli titoli azionari, obbligazionari e veicoli comuni di investimento custoditi dalle banche italiane. Essa raggiungeva 2.100 miliardi, di cui circa 500 rappresentati da titoli di Stato italiani. La differenza tra i 5.300 miliardi totali e i 4.300 custoditi presso le banche è data dalla quota di risparmio assicurativo, stimabile intorno a 1.000 miliardi.
 

È importante comprendere la differenza tra la raccolta diretta e la raccolta indiretta (amministrata e gestita) per poter analizzare le eventuali destinazioni di queste risorse ai fini della crescita dell’economia italiana. In particolare: la raccolta diretta di 2.200 miliardi depositata presso le banche rappresenta il principale serbatoio a cui gli istituti attingono per concedere impieghi all’economia; data la natura prevalentemente domestica dell’operatività delle nostre banche, possiamo semplificare dicendo che sicuramente tra l’80% e il 90% dei depositi è potenzialmente destinabile agli impieghi verso privati e aziende italiane. La raccolta indiretta rappresenta altri 2.100 miliardi, di cui circa 500, come menzionato, rappresentati da titoli di Stato italiani e altri 500 da titoli di Stato di altri governi; circa 300 miliardi sono titoli di capitale di aziende e circa 800 miliardi di “Oicr”, Organismi di investimento collettivo del risparmio (fondi comuni e sicav). Il risparmio in veicoli assicurativi con sottostanti investimenti è stimato in circa 1.000 miliardi. Analizziamo in prima battuta l’utilizzo di circa 2.200 miliardi di depositi. Oltre 1.800 di questi sono depositi bancari, il resto depositi presso bancoposta. A fronte dei depositi bancari gli impieghi sono circa 1.300 miliardi con un rapporto impieghi/raccolta di circa 0,75 che si confronta con un rapporto di 1,5 (il doppio!) nel 2011. In un decennio gli impieghi bancari si sono ridotti da 1.500 a 1.300 miliardi e la raccolta diretta è cresciuta da 1.000 a 1.800.
 

Quale spiegazione dare a questo fenomeno così radicale di modifica nel rapporto tra impieghi e raccolta? La raccolta bancaria è cresciuta continuamente e con discreta regolarità negli ultimi anni. Ovviamente, va ricordato che durante la pandemia da covid-19 i consumi sono inevitabilmente crollati generando una componente aggiuntiva di risparmio non strutturale. Tuttavia, anche neutralizzando questa componente, la crescita sarebbe stata significativa. invece, ha subito una decrescita da 1.500 a 1.300 miliardi. Quali possono essere stati i motivi? Un primo fenomeno che ha influito in modo importante sulla dinamica degli impieghi del sistema bancario italiano è stata la gestione dei circa 300 miliardi di crediti problematici, che si erano cumulati in particolare nel periodo 2008-2012. La forte pressione delle autorità di vigilanza a favore di una rigorosa classificazione della qualità del credito concesso, ha portato negli ultimi anni a una radicale riduzione di questo stock, sia attraverso una soluzione “interna” di transazioni con il debitore sia attraverso la cessione dei crediti a operatori terzi non appartenenti al mondo bancario.
 

A questo primo fattore si collega almeno in parte un secondo. I modelli di risk management previsti dall’evoluzione della normativa hanno cominciato a determinare in maniera decisiva le concessioni di credito. Essi hanno (giustamente) migliorato in termini di rigore la qualità delle decisioni, portando a un ulteriore rallentamento della crescita degli impieghi. A titolo esemplificativo il credito nel 2022 è cresciuto per le aziende a rischio basso e diminuito per quelle a rischio medio e alto. Un secondo fenomeno trova la sua origine nel processo di concentrazione in divenire nel mercato bancario. Per quanto si cerchi di porre la massima attenzione ai bisogni della clientela, nel medio periodo la fusione o l’acquisizione di istituti finanziari tende a semplificare le situazioni di sovrapposizione sulla clientela, e qui due più due non fa quattro. A medio termine il totale degli impieghi sullo stesso cliente raggiunge a una cifra minore rispetto alla sommatoria della situazione pre-fusione, se non altro per minimizzare i rischi di concentrazione. Inoltre, un’influenza significativa e ormai strutturale è (e sarà) esercitata dalla disciplina sulla liquidità e l’asset-liability management delle banche richiesta dalla Bce dopo il crollo di Lehman Brothers e gli accordi di Basilea 3 del 2010, confermata dalle crisi di liquidità a cui abbiamo assistito nell’ultimo periodo. Se confrontato con quello di altri paesi occidentali, il mercato dei capitali in Italia risulta poco sviluppato in termini dimensionali, probabilmente anche a causa di un tessuto industriale caratterizzato da imprese medio-piccole, spesso governato da strutture familiari. Relativamente bassa, seppure in aumento, è anche la presenza di capitale di fondi privati. Non c’è dubbio che questa situazione possa essere migliorata, ma per fare ciò sono necessari sforzi di lungo periodo: della dimensione media delle imprese italiane si discute da molti anni, ma poco è cambiato. Si sosteneva che questa caratteristica non avrebbe permesso loro di sostenere la concorrenza nell’era della globalizzazione, eppure i casi di successo delle nostre multinazionali “tascabili” (per la dimensione) sono molteplici. Il sistema paese non ha perso posizioni di mercato tra i paesi sviluppati, una volta normalizzato l’effetto dovuto all’imponente crescita delle quote che i paesi in via di sviluppo (e in particolare la Cina) hanno conquistato nel recente passato.
 

La dimensione delle imprese, tuttavia, è rilevante sul mercato dei capitali: un titolo obbligazionario o azionario deve avere, come minimo, una liquidità di diverse centinaia di milioni – se non di miliardi – per essere preso in considerazione dagli investitori globali. Un’impresa italiana medio-piccola non ha la dimensione per emettere titoli coerenti con tale caratteristica. È quindi essenziale comprendere quale allocazione del risparmio presso le banche sia più favorevole al sistema economico italiano. Partiamo dalla raccolta amministrata e gestita. Per definizione tutti gli investimenti in titoli di Stato italiani supportano il sistema. Una parte dei fondi di investimento e delle gestioni patrimoniali è destinata al sistema italiano, ma è inevitabile che tale quota sia marginale se viene rispettata la corretta distribuzione della concentrazione del rischio. Il nostro sistema rappresenta una piccola porzione dell’economia globale e, anche volendo ipotizzare una presenza preponderante di titoli denominati in euro nei portafogli degli investitori italiani per minimizzare il rischio di cambio, superare la soglia del 10% del capitale investito sarebbe incoerente con una corretta distribuzione. Inoltre, è importante ricordare che, benché non quotate, le azioni delle imprese italiane sono pur sempre detenute dalle famiglie che ne controllano la proprietà e vanno correttamente computate nei modelli di calcolo della concentrazione del rischio.
 

A oggi è ipotizzabile che, tra raccolta amministrata e gestita presso le banche, nel sistema Italia siano investiti, direttamente in titoli di Stato o attraverso componenti di risparmio gestito, 500-600 miliardi di euro, oltre alle quote di possesso delle aziende italiane non quotate. Nel corso degli anni è stata avviata una serie di iniziative volta a sviluppare ulteriormente questa componente. Un esempio recente è costituito dai Piani individuali di risparmio (pir), introdotti nel 2017 per favorire gli investimenti delle persone fisiche nelle aziende nazionali, a cui nel 2020 sono seguiti i cosiddetti “pir alternativi” che hanno l’obiettivo di canalizzare il risparmio verso investimenti illiquidi in imprese italiane medio-piccole. (…) Stando alle ipotesi formulate poc’anzi sulla quota del risparmio gestito destinata al sistema economico italiano, occorrerebbero almeno 1.800 miliardi ulteriori per pareggiare la crescita degli impieghi bancari ottenuta da un maggior utilizzo dei depositi, cioè dalle due alle tre tre volte lo stock attuale. È indubbio che le risorse derivanti dagli impieghi arrivano in forma di linee di credito mentre quelle da risparmio gestito sarebbero prevalentemente risorse di capitale, ma sappiamo altrettanto bene che la stragrande maggioranza delle aziende italiane non è quotata. È ovvio, allora, che i depositi bancari vadano tutelati.
 

Un compito di difesa della stragrande maggioranza dei depositi è svolto dal Fondo di garanzia che, come sappiamo, copre i depositi fino a 100.000 euro. Tuttavia, oltre al default, c’è un altro rischio: quello di disintermediazione interno al sistema. Le iniziative recenti, per cui sono state emesse diverse tipologie di titoli di Stato a condizioni interessanti per il cliente retail, “pescano” in parte nel risparmio gestito e in parte nei conti correnti. Questi ultimi soffrono di un handicap fiscale (a oggi gli interessi maturati sono tassati al 26% contro il 12,5% dei titoli di Stato) ma anche di una remunerazione molto bassa in termini assoluti, persino se confrontata con i bot a tre mesi. Bisogna trovare la giusta misura in ambito fiscale: avvantaggiare i titoli di stato è ragionevole, ma una differenza di oltre il doppio (12,5% vs 26%) sarà quella giusta? Al contempo non si può dare per scontata una remunerazione molto bassa o addirittura azzerata dei depositi retail: è vero che nel periodo di tassi negativi le banche italiane non hanno riversato sui clienti i costi finanziari che affrontavano, ma è altrettanto vero che non è più pensabile continuare a difendere tassi zero sui depositi dopo i recenti rialzi. Proviamo a questo punto a sintetizzare: la morfologia del sistema economico italiano non è, a oggi, compatibile con un utilizzo preponderante del mercato dei capitali come fonte principale di approvvigionamento di risorse. Inoltre, il livello elevato di indebitamento pubblico distrae una parte importante di risorse per destinarlo al pagamento degli interessi (oltre 70 miliardi nel 2022 in un contesto di tassi ancora bassi).
 

È quindi il sistema bancario la fonte primaria prevalente che alimenta il sistema economico italiano. Può piacere o meno, ma questa è una caratteristica strutturale che il sistema Italia si porterà avanti ancora per diversi anni. Anche ipotizzando uno scenario virtuoso in cui la dimensione media delle aziende italiane aumenti significativamente e il debito pubblico ritorni sotto quota 100 nel rapporto sul pil, il più ottimista di noi non collocherebbe temporalmente questa eventualità prima del 2035. Le banche italiane vanno giustamente vigilate, devono operare in un contesto competitivo e devono tutelare correttamente i propri clienti. Insomma, vanno supervisionate con il massimo del rigore ma con la consapevolezza che indebolirle sarebbe un atteggiamento perlomeno poco intelligente per la tenuta del sistema Italia. Resta un’ultima domanda cui rispondere: non c’è proprio alcun altro modo per incrementare le risorse disponibili? Non c’è un pensiero laterale che contribuisca a migliorare la situazione? A nostro avviso sì.
 

Secondo una recente ricerca (ey Europe Attractiveness Survey 2022), l’Italia ha aumentato la propria quota di investimenti esteri in Europa dal 2% al 3,5%. Una crescita importante e repentina. Peccato che Francia, Regno Unito e Germania siano su quote rispettivamente al 21%, 17% e 14%. Anche a livello di stock, secondo un recente rapporto Deloitte, nel 2020 la percentuale di pil generata da Investimenti diretti esteri (ide) era del 25,8% in Italia, del 28% in Germania, del 37,2% in Francia e addirittura del 66,6 % in Spagna. Ipotizzando nel breve termine di incrementare lo stock del 2,2% del pil, per allinearsi alla Germania, si tratterebbe di un contributo aggiuntivo di oltre 40 miliardi al prodotto interno lordo italiano. Continuare, e se possibile accelerare, sulla strada delle riforme orientate a migliorare l’attrattività del sistema Italia può essere parte essenziale, e forse anche ovvia, di quella componente aggiuntiva di risorse che stavamo cercando.

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