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Le auto elettriche in Europa travolte dal realismo: i problemi di Renault e le altre

Stefano Cingolani

Come ha detto il ceo di Stellantis, c'è un divario di costi del 40 per cento con i costruttori cinesi. Nessun capo di un governo democratico potrebbe coprirlo con i soldi dei contribuenti

Nessun matrimonio. Stellantis non andrà a nozze con la Renault, il che farebbe piacere al governo francese il quale diventerebbe ampiamente il primo azionista e sarebbe un gran dispetto per il governo italiano. Ma non sposerà nemmeno Ford o General Motors al contrario di quel che suggeriva l’articolo del quotidiano economico Les Echos smentito ieri da John Elkann. Il presidente ha anche detto che il gruppo automobilistico andrà avanti con il piano Dare Forward che stanzia ingenti investimenti nell’auto elettrica in particolare negli stabilimenti italiani. Per ora è così, poi si vedrà perché il salto tecnologico porterà a nuove concentrazioni e molti calcoli del giorno prima andranno rivisti. A cominciare proprio dai tempi e dai modi della transizione. 

Il 2024 si è aperto con molte battute d’arresto per due ragioni di fondo: l’inaridirsi degli incentivi pubblici e un raffreddarsi delle preferenze dei consumatori. Ha esordito proprio la Renault che aveva in progetto di portare in borsa Ampere, la società nella quale ha concentrato le produzioni elettriche, destinata a diventare “la Tesla europea”. La decisione è rinviata, perché secondo gli analisti sarebbe stata quotata non a dieci miliardi di euro come atteso dalla casa madre, ma a non più di sei. Del resto, le vetture completamente elettriche dopo il boom dello scorso anno ristagnano anche in Francia, dove rappresentano quasi il 17% del totale poco più che in Germania (ben lontane la Spagna con il 5% e l’Italia fanalino di coda con appena il 4%). Berlino che ha speso molto per sussidiarie l’elettrico, ha dovuto sospendere gli aiuti anche per rimediare al pasticcio sui fondi per sostenere l’economia. Ma quel che più conta è il mutamento delle aspettative che sta cambiando i programmi dei grandi costruttori, ad eccezione per ora di Stellantis. Carlos Tavares ha dichiarato che non rallenterà la costruzione di Ev nemmeno negli Stati Uniti a meno che non ci sia un ribaltone alla Casa Bianca. Se vince Donald Trump, dunque, l’auto elettrica andrà in soffitta? Allora è un prodotto fuori mercato, uno zombie economico? Tavares fino a due anni fa non credeva in quello che adesso è diventato il perno della sua strategia.

C’è chi è ricorso a una metafora efficace, definendo “valle della morte” il triennio 2024-2027. I consumatori non sono convinti che i veicoli elettrici soddisfino le loro esigenze in termini di sicurezza, autonomia e, fattore fondamentale, prezzo. Lo conferma la caduta del valore dell’usato. La Tesla ha poi scatenato una guerra dei listini per far fronte all’onda cinese anche a costo di ridurre i guadagni. Dunque, anche chi crede che l’auto tutta elettrica sia il veicolo del prossimo futuro, aspetta che si facciano progressi nelle batterie consentendo così maggiore autonomia o anche nell’intero apparato digitale che deve garantire una guida migliore. Negli Stati Uniti la Ford ha ridotto la produzione del suo F-150 Lightning, il pick-up elettrico lanciato due anni fa. Una decisone che ha punito la quotazione del titolo a Wall Street. La Hertz ha tagliato 20 mila Ev dalla sua flotta di vetture a noleggio. I mugugni dei venditori di auto General Motors sono arrivati sulla prima pagina del Wall Street Journal: perché mai, si chiedono, la GM punta tutto sull’elettrico mentre la gente chiede sempre più auto ibride? Non se ne avvantaggiano i produttori americani né quelli europei, ma i giapponesi, a cominciare dalla Toyota che non pensa certo di rinunciare alla sua gallina dalle uova d’oro. 

A mano a mano che questo stato d’animo si diffonde, le stesse case cinesi troveranno difficoltà a sfondare, se non abbassano i prezzi a livelli insostenibili da qualsiasi impresa che voglia stare in piedi. Tavares, nella sua intervista a Bloomberg venerdì scorso, ha detto che c’è un divario di costi del 40% con i costruttori cinese. Nessun capo di un governo democratico che agisca secondo un principio di razionalità economica e non di pura potenza potrebbe coprirlo con i soldi dei contribuenti, né Trump né Biden che pure ha speso molto. In Germania i grandi gruppi automobilistici si sono fatti carico degli assegni che Berlino ha smesso di staccare. Ma questo incide sulla redditività delle imprese. Quindi c’è da attendersi una stretta sui costi di produzione a cominciare dal lavoro: a parità di salario meno occupati e più produttività. In fondo è proprio questo il messaggio che Tavares ha lanciato dagli schermi di Bloomberg tv. Ha messo nel mirino Mirafiori e Pomigliano, ma la tempesta che parte dalle Alpi non si fermerà a Eboli.
 

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