Giancarlo Giorgetti (LaPresse)

niente di reale

La storia delle privatizzazioni di Giorgetti è pura fuffa. Purtroppo

Oscar Giannino

Il povero ministro dell'Economia non sta svendendo un bel niente. La premier Meloni ha detto con chiarezza che “non ci sarà alcuna cessione del controllo di società pubbliche” e la sinistra la pensa uguale

Diciamolo: sulle cosiddette privatizzazioni è slittato il piede sulla frizione. Il titolo di Repubblica sabato, “Italia in vendita” – “vendita” e non “svendita” – era solo la sintesi dei servizi relativi all’impegno di Giorgetti nel promuovere a investitori esteri gli oltre 350 miliardi di debito che deve piazzare in questo 2024, e l’assunzione di parte di quei 20 miliardi di quote di aziende pubbliche che il governo deve cedere in tre anni.

Meloni ha risposto che non prende lezione di italianità, ma Stellantis non c’entra nulla né con quel titolo né con ciò che Giorgetti è impegnato a fare. Il povero Giorgetti non sta svendendo un bel niente. Questa sulle “privatizzazioni” è pura fuffa da bipolarismo testosteronico, niente di reale. E non solleva neanche per sbaglio i punti veri che bisognerebbe affrontare per cedere quei 20 miliardi di quote pubbliche. In primis, non c’è nessuna “privatizzazione” in vista. Sono pure cessioni di quote minoritarie. Quei quattro gatti che la pensano come chi scrive aggiungono “purtroppo”, tutti gli altri no. Ormai da anni l’unico vento che spira da sinistra a destra nella politica italiana è “le privatizzazioni degli anni Novanta sono stati un errore impostoci dall’Europa, lo stato deve tornare a essere regolatore e gestore insieme”. Sono minoritarie anche pensose voci come quelle di Marco Onado e Piero Modiano, che pur analizzando implacabilmente nel loro ultimo libro gli errori fatti dalla politica malconcertando alcune delle maggiori privatizzazioni, non dimenticano che a smontare lo stato proprietario e gestore furono decenni di follie, sprechi e malaffare pubblico, e che nella responsabilità poi di alcuni eclatanti fallimenti emersero anche vaste colpe di privati.

Giorgia Meloni ha detto con chiarezza che “non ci sarà alcuna cessione del controllo di società pubbliche”. Noi quattro gatti abbiamo diritto a criticare, ma la sinistra la pensa uguale. Secondo punto: cedete quote pubbliche per far cassa, invece di usare le politiche di bilancio!”. Come sopra: le politiche di bilancio lassiste hanno accomunato con poche eccezioni governi di tutti i colori, e quando anni fa la famigerata Ue ci consentì flessibilità per decine di miliardi di euro, dal governo Renzi in poi la politica l’ha usata per bonus e superbonus di ogni tipo, mica per iniziare una seria politica di abbattimento del debito. Ergo, anche su questo la polemica possiamo permettercela in pochi, chi da decenni ha sistematicamente criticato le politiche finanziarie di ogni governo che sul debito pubblico si limitava solo a tirare un calcio alla lattina. Quel che invece sarebbe interessante, ma ovviamente non avverrà, è che il confronto pubblico si ponesse alcune questioni davvero rilevanti, se si vogliono cedere quote a privati del capitale di Ferrovie e Poste. Ferrovie Spa è oggi al 100 per cento pubblica e riceve a vario titolo più di 10 miliardi all’anno di trasferimenti dalle casse pubbliche. Pochi hanno continuato a protestare su questa anomalia, come Marco Ponti e Francesco Ramella. A tutti sembra normale. Questi trasferimenti servono a coprire costi.  Grazie a tale ripiano improprio si realizzano modesti profitti. Ora se ne vuole cedere al mercato una quota per ottenere tra i 4 e i 5 miliardi di euro. Ma perché i privati dovrebbero acquisirla, se non per comprarsi la garanzia un dividendo che viene da continuità se non accrescimento dei trasferimenti pubblici, invece che da maggior efficienza?

Una spinta all’efficienza verrebbe solo da una quota di capitale privata rilevante e dotata di voce nel cda, ma è esattamente quel che il governo e l’intera politica italiana non vogliono. In caso contrario si darà solo un incentivo ai privati per assumere quote presentate come prive di rischio e a rendimento garantito. Cosa diversa ancora sarebbe cedere quote della sola Trenitalia scorporandola dalla rete: come azienda di servizi, la sua efficienza avrebbe solo da guadagnare da soci privati, e la cessione potrebbe essere alla fine anche integrale, lasciando allo stato la rete Rfi e i servizi non a mercato come i treni regionali. Pensate ai tuoni che verrebbero da sinistra e sindacati. Per Poste, la cessione di due terzi della quota del Mef, vista la quota detenuta da Cdp, vedrebbe la società restare con un 45 per cento di capitale pubblico così da assicurarne il controllo. Ma poiché l’azienda guidata da Del Fante è impegnata in una strategia di crescita verso nuovi business e logistica (la strada seguita molti anni fa da ex monopolisti postali pubblici in Europa), la cessione di una quota non minima ma corposa a fondi d’investimento andrebbe accompagnata da un’esplicita strategia di assicurarsi il loro sostegno per accrescerne ulteriormente redditività e produttività. Su cose così ci vorrebbe la polemica, non sul solito straccio della lesa sovranità italica.                   

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