l'analisi

Un'altra patrimoniale contro deficit e disuguaglianza? I limiti della proposta Fornero

Luciano Capone

L’anomalia dell'Italia non è una bassa tassazione sui patrimoni (è nella media Ocse), ma un’elevata tassazione su tutto il resto: la pressione fiscale è tra le più alte al mondo. Perché non puntare sulla revisione della spesa?

La professoressa Elsa Fornero ha lanciato, prima in tv e poi dalle colonne della Stampa, l’idea di una patrimoniale. Si tratta di una parola che fa venire i brividi di paura a destra e di piacere all’estrema sinistra, ma che ormai le forze progressiste hanno smesso di proporre perché, come ha  saggiamente osservato Romano Prodi, “le tasse fanno perdere le elezioni”. Prova ne è, durante l’ultima campagna elettorale, la proposta del Pd di Enrico Letta di una tassa di successione sui ricchi, che tra le patrimoniali dovrebbe essere la più popolare, e che pure non ha riscosso il consenso sperato. Il fatto che la patrimoniale sia impopolare non vuol dire, però, che non possa essere giusta o quantomeno sensata. Ci sono molte riforme impopolari che sono positive  per l’economia, l’esempio più chiaro è proprio la riforma Fornero delle pensioni. Si può quindi discuterne senza tabù, tenendo a mente però alcuni punti o problemi.

 

Le ragioni, secondo la Fornero, a favore di un aumento della tassazione patrimoniale sono principalmente due: difficoltà nella finanza pubblica e gravi iniquità sociali. Quindi ridurre il deficit (e quindi il debito) e ridurre le disuguaglianze. Questi obiettivi sono però in parte alternativi, nel senso che se il gettito della nuova imposta viene usato per riequilibrare i conti non può essere redistribuito alle fasce più povere. L’ex ministro del Lavoro ricorda correttamente che i governi populisti hanno un’intrinseca tendenza al deficit, a spendere cioè indebitandosi. L’idea magica che esistano provvedimenti fiscali che “si ripagano da soli” accomuna sia la sinistra (che invoca il moltiplicatore keynesiano) sia la destra (che si appella alla curva di Laffer). Nella realtà aumenta il debito pubblico che, come ricorda Fornero, “non equivale a una rinuncia ad aumentare l’imposizione fiscale in misura tendenzialmente corrispondente all’aumento della  spesa bensì soltanto a un suo posticipo nel tempo”.

 

L’aumento delle tasse, quindi, sarebbe una semplice conseguenza dell’aumento della spesa. Non è però una strada inevitabile. C’è, politicamente, un’altra soluzione che è tagliare la spesa pubblica. Eppure Fornero, che con la sua riforma ha dato il contributo maggiore al non aumento della spesa pensionistica, sostiene che è “politicamente altrettanto difficile”. Se però aumentare le tasse e tagliare la spesa sono soluzioni ugualmente difficili sul piano politico, non si comprende perché preferire la prima alla seconda. Soprattutto tenendo conto che, proprio secondo le nuove regole fiscali europee, ciò che dovremmo tenere a freno è la spesa primaria netta.

 

Fornero usa poi altri due argomenti, in parte diversi e alternativi. Il primo è che la patrimoniale sugli immobili, ma non sulla ricchezza finanziaria che ne è già gravata, deve rientrare in “un contesto di riordino complessivo del fisco” per 1) ridurre la disuguaglianza; 2) ridurre l’imposizione sul reddito da lavoro, a parità di pressione fiscale. Sul primo punto bisogna considerare che, come ha già un’imposta sulla ricchezza finanziaria, l’Italia ha anche già un’imposta sul patrimonio immobiliare: l’Imu. Complessivamente le tasse sulla proprietà in Italia raccolgono il 2,5% del pil: un dato che è superiore alla media Ocse (1,9%), pari alla Spagna, certamente inferiore alla Francia (3,8%) ma più alto della Germania (1,2%). Ogni paese ha un suo mix di entrate, ma una cosa è certa: l’Italia è tra i primi paesi al mondo per pressione fiscale (43%).

 

L’anomalia non è una bassa tassazione sui patrimoni (quella italiana è nella media), ma un’elevata tassazione su tutto il resto, a partire dai redditi. Si può quindi anche pensare, nell’ambito di una riforma complessiva del fisco che includa una revisione del catasto, un aumento della tassazione sugli immobili. D’altronde ci sono paesi non certo “socialisti” o statalisti, come Stati Uniti, Regno Unito o Australia che hanno tasse sui patrimoni più alte dell’Italia in rapporto al pil. Ma hanno tasse più basse su tutto il resto, con una pressione fiscale complessiva dagli 8 ai 15 punti di pil più bassa. Come ricordava Totò: è la somma che fa il totale!

 

Infine c’è una questione spesso sottovalutata a sinistra (anche se  non da Fornero): il tema della “progressività” viene visto sempre dal lato delle entrate (più tasse) e quasi mai dal lato delle uscite (spendere meglio). Come se ai fini della “redistribuzione” contasse da chi si prendono i soldi ma non a chi vengono dati. Il caso più emblematico di questo strabismo, proprio perché riguarda gli immobili, è quello dei bonus edilizi attraverso cui il centrosinistra in Italia ha elargito (tra Superbonus e bonus facciate) 130 miliardi di euro a poche famiglie, prevalentemente benestanti. Ora si chiede, per riequilibrare il deficit e ridurre le disuguaglianze, di introdurre un’altra patrimoniale. Così il ceto medio, quello che versa la gran parte delle tasse, si troverebbe a pagare due patrimoniali: la prima a favore dei ricchi, la seconda a favore dei poveri.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali