Lo scontro ideologico sulla tassa di Letta

Luciano Capone

Ciò che conta dell’imposta di successione proposta dal Pd non sono gli aspetti tecnici e le ricadute concrete, ma la portata simbolica: larga parte del paese, anche non ricca, pensa che le tasse vadano abbassate e non aumentate

Su un tema Enrico Letta ha sicuramente ragione: discutere dell’imposta di successione non può essere un tabù. Non è un’idea (solo) da bolscevichi, dato che era vista con favore da un liberale classico come Luigi Einaudi; è presente, a livelli più elevati che in Italia, in paesi capitalistici più sviluppati e avanzati come Stati Uniti e Regno Unito; infine è difficile trovare una motivazione “etica” per rigettare la tassazione delle eredità quando si tassano in maniera molto più consistente redditi da lavoro e da capitale, consumi e patrimoni.

 

Ciò che, invece, è interessante discutere è se la proposta di Letta e del Pd abbia solo un valore simbolico o risolva qualche problema concreto. Insomma, tassare di più chi eredità grandi fortune (il 20 per cento oltre i 5 milioni di patrimonio) per distribuire 10 mila euro alla metà più povera dei ragazzi che compiono 18 anni riduce le disuguaglianze e migliora le condizioni dei più giovani? E in che misura? A livello generale, va ricordato che le imposte di successione non hanno un grande ruolo nei sistemi tributari. La maggior parte dei paesi Ocse, 24 in totale, ha un’imposta di successione che però genera poche entrate: mediamente lo 0,5% del totale. In Italia il gettito raccolto è circa lo 0,1% quindi l’aumento di pressione fiscale proposto dal Pd, che vale 3-4 miliardi, ci avvicinerebbe alla media dei paesi Ocse che hanno questa imposta. Anche se bisogna considerare che negli ultimi decenni 10 paesi Ocse hanno completamente abolito l’imposta di successione perché non era particolarmente amata, era facilmente eludibile, aveva elevati costi amministrativi e faceva raccogliere poche entrare. Uno degli ultimi a farlo è stata con un voto unanime nel 2004 la Svezia, un paese molto egualitario, tra l’altro ad opera di un governo socialdemocratico. C’è poi da considerare che se da un lato la media Ocse di gettito dall’imposta di successione è lo 0,5% rispetto allo 0,1% dell’Italia, dall’altro la pressione fiscale media dei paesi Ocse è del 33,8% del pil rispetto al 42,4% dell’Italia. Quindi, se la proposta più ampia fosse quella di far convergere complessivamente il sistema fiscale italiano verso la media Ocse, aumentando di qualche decimale le tasse sulle eredità dei più ricchi in cambio di 10 punti in meno di pressione fiscale complessiva, saremmo sicuramente di fronte a uno scambio conveniente e auspicabile.

Ma non è questo il caso. In assenza di un progetto di riforma fiscale complessiva, quella del Pd è una proposta parziale che va valutata semplicemente come un ulteriore aumento della pressione fiscale. E questa proposta politica presenta due risvolti, uno è quello tecnico e l’altro, più rilevante, è quello simbolico. Questi due aspetti sono stati analizzati in un articolo sul Mulino da Vincenzo Visco. L’ex ministro delle Finanze, che è ovviamente simpatetico con l’impostazione di Letta di tassare di più i ricchi per aumentare la redistribuzione, critica gli aspetti tecnici della proposta. Da un lato Visco evidenzia tutte le problematiche dell’accertamento dell’imposta che rischiano di farla diventare eludibile e discriminatoria (questo, ad esempio, è il motivo che ha condotto all’abolizione in Svezia) e per questi motivi sarebbe sicuramente preferibile “una buona imposta personale sul patrimonio posseduto” (la patrimoniale); dall’altro lato Visco critica l’utilizzo del gettito, la “dote” da 10 mila euro ai 18enni, perché “seguire la logica dei bonus monetari generalizzati, come fatto già da Renzi in passato, rischia di diventare l’ennesima occasione per un’inutile spreco di risorse pubbliche, con effetti profondamente diseducativi”. Bocciato l’aspetto tecnico, ciò che Visco riconosce come estremamente positivo è il valore simbolico della proposta di Letta: “Si rompe un tabù, sdoganando l’idea che le tasse possono anche essere aumentate e non solo ridotte”.

L’analisi di Visco è ineccepibile e, per giunta, spiega anche il motivo delle forti reazioni negative alla proposta di Letta, soprattutto da persone che non verrebbero affatto toccate dalla tassa e che, anzi, hanno magari figli che potrebbero esserne beneficiari. Non sono persone stupide o incapaci di riconoscere e perseguire i propri interessi. Semplicemente buona parte dell’elettorato ha capito benissimo la portata simbolica e ideologica della proposta di Letta e, al contrario di Visco, ritiene che per dare un futuro migliore ai giovani e al paese le tasse vadano ridotte e non aumentate.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali