la contraddizione

I sindacati scioperano contro una manovra di sinistra

Luciano Capone

Quindici miliardi di taglio del cuneo fiscale, cinque miliardi per i contratti della Pa, tre miliardi per la sanità. Gran parte delle risorse vanno ai lavoratori e ai redditi medio-bassi, più progressività, meno disuguaglianza. Contro cosa protestano Cgil e Uil?

Si fa fatica, leggendo la piattaforma dello sciopero di Cgil e Uil, a comprendere le ragioni della protesta contro la manovra del governo Meloni. Se una critica va fatta a questa legge di Bilancio – come il Foglio ha scritto ieri e nelle ultime settimane – è che non è affatto “prudente”, come sostiene il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Tutt’altro. Le proiezioni della Commissione europea mostrano un deficit persistentemente elevato e un debito pubblico che cresce, unico tra i paesi europei più indebitati.

 

Ma la critica di Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri è di tenore opposto: c’è troppa “austerità”! Dovrebbe essere evidente a chiunque che se il governo avesse impostato una politica economica ancora più espansiva, l’Italia sarebbe stata bocciata prima dai mercati e poi dalle agenzie di rating, trovandosi in difficoltà serie ben prima della bocciatura della Commissione europea. Se è questa l’intonazione della politica fiscale suggerita da Cgil e Uil, si tratta di un invito al suicidio politico per il governo ed economico per il paese. 


Fatta questa premessa, all’interno dei saldi della manovra, si può riflettere sull’allocazione delle risorse. Dove, in sostanza, il governo mette i soldi? La risposta è evidente, numeri alla mano: ai redditi medio-bassi e, prevalentemente, ai lavoratori dipendenti. Lo scorso anno, quando il governo Meloni alzò la decontribuzione da 2 a 3 punti, Landini indisse uno sciopero generale al grido di: “Bisogna aumentare la decontribuzione al 5 per cento”. Ora il governo porta lo sgravio al 7 per cento. La risposta del sindacato? Sciopero generale!

 

Il sindacato dice che il taglio dei contributi c’era già e che quindi non comporta nessun vantaggio aggiuntivo e, inoltre, che è temporaneo. Sono due critiche valide, che però non spostano molto i termini della questione. È vero che il taglio dei contributi è solo per un anno, come peraltro è sempre accaduto negli ultimi tre anni, ed è anche vero che conferma una misura esistente. Ma resta il fatto che andava rifinanziata e che quindi servivano le risorse per farlo: il governo ha messo solo per questa misura quasi 11 miliardi di euro, la voce più importante della legge di Bilancio, integralmente destinata ai lavoratori dipendenti sotto i 35 mila euro di reddito annuo (12 milioni di famiglie).

 

A questo, il governo ha aggiunto un taglio dell’Irpef attraverso l’accorpamento dei primi due scaglioni all’aliquota più bassa (2 punti in meno), sterilizzando però i benefici per i redditi oltre i 50 mila euro attraverso un taglio delle detrazioni. Sono altri 4,3 miliardi di euro, che sommati alla decontribuzione fanno 15 miliardi di taglio del cuneo fiscale a favore dei redditi medio-bassi, con una media di 1.112 euro netti per famiglia secondo l’Istat). Per fare un confronto, nel 2007 l’architrave della politica economica del governo Prodi fu un taglio del cuneo fiscale di 7 miliardi, ma diviso per il 60 per cento a favore delle imprese e per il 40 per cento a favore dei lavoratori.

 

In questo senso, le misure del governo Meloni vanno esattamente nella direzione della piattaforma dello sciopero contro il governo Meloni: “Promuovere un fisco progressivo”, scrivono Cgil e Uil. Il sindacato di Landini è convinto che l’intervento del governo, eliminando un’aliquota, renda il sistema fiscale meno progressivo. Ma misurare la progressività dal numero delle aliquote è un errore banale. Tutte le analisi di impatto fatte da organismi indipendenti come la Banca d’Italia, l’Istat e l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) mostrano che il taglio del cuneo fiscale fatto dal governo Meloni riduce la diseguaglianza e rende il sistema fiscale più progressivo. Secondo la Banca d’Italia, le due misure comportano una riduzione della diseguaglianza dei redditi misurata con un calo di 0,3 punti dell’indice di Gini. Secondo l’Upb, l’effetto redistributivo dell’applicazione congiunta dell’Irpef e della decontribuzione è complessivamente progressivo: “L’indice di redistribuzione aumenta di 0,15 punti”.

 

L’altra grande voce della legge di Bilancio è lo stanziamento da 5 miliardi per il rinnovo dei contratti dei dipendenti della Pubblica amministrazione. Poi ci sono i 3 miliardi destinati alla sanità, in gran parte al rinnovo dei contratti del comparto. Infine un miliardo per le misure a sostegno delle famiglie e della natalità. In sostanza, la grandissima parte degli impieghi, quasi la totalità, è destinata alle famiglie a medio-basso reddito e al lavoro dipendente pubblico e privato. Secondo i parametri tradizionali, si potrebbe dire che Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti hanno fatto una manovra “di sinistra”.

 

Certamente i sindacati hanno delle lamentele da fare, rispetto alla loro posizione, sulle pensioni: si aspettavano una politica salviniana di smantellamento della riforma Fornero, e invece è prevalso un approccio giorgettiano che va verso la piena attuazione della Fornero. Come anche Cgil e Uil protestano perché le risorse per la sanità e per i contratti della Pubblica amministrazione non sono sufficienti. Però si tratta, ancora una volta, di pretese che non fanno i conti con il vincolo di bilancio: dovendo scegliere dove allocare le risorse scarse, i sindacati preferirebbero darle ai pensionati o ai lavoratori a basso reddito? Alla fine si gioca tutto su questa domanda. Se rispondono “ai pensionati” lo sciopero ha un senso, altrimenti molto meno.

 

Guardando alle scelte del governo e alla distribuzione delle risorse, sembrano più fondate le proteste di Carlo Bonomi, dato che il governo ha abrogato l’Ace (Aiuto alla crescita economica) – con un recupero di gettito per lo stato di 4,8 miliardi – che comporterà, secondo le stime dell’Istat, un aumento delle imposte per il 25 per cento delle imprese, soprattutto quelle manifatturiere (33 per cento). Lo sciopero, insomma, dovrebbe farlo la Confindustria contro una manovra troppo di sinistra.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali