i conti al governo

Debito e privatizzazioni, la Nadef ha un problema di credibilità

Luciano Capone

Non si sa se sia prudente, ma di certo il documento del governo è poco credibile. La lievissima discesa del debito pubblico dipende integralmente, oltre che da una crescita ottimistica, da un piano di dismissioni da 20 miliardi (1 punto di pil). Tutti i governi annunciano privatizzazioni, ma dal 2017 a oggi gli introiti sono pari a zero

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, con un volto più corrucciato e un tono più serio del solito, ha ripetuto che quello del governo è un “approccio responsabile e prudente”. Il problema, però, è se sia anche credibile. Perché a giudicare dal rialzo dello spread, che è tornato ad avvicinarsi a 200 punti, i mercati hanno capito altro. Anche a Bruxelles, dove pure apprezzano la prudenza del governo, hanno accolto con preoccupazione il segnale sul debito.

 

È quello il dato cruciale della Nadef approvata dal governo Meloni: il debito pubblico nel 2024 è previsto al 140,1% del pil, in calo di un solo decimale rispetto a quest’anno. E anche per i due anni successivi la riduzione del debito sarà di appena mezzo punto, dato che nel 2026 è stimato al 139,6%. Vorrà dire che l’Italia avrà presto il debito pubblico più alto d’Europa, visto che quello della Grecia è previsto scendere al 135,2% nel 2026.Il vero problema non è neppure la stasi del debito pubblico a un livello elevato, ma come si arriva a quelle stime. Il governo prevede una crescita nel 2024 all’1,2%, ben al di sopra sia dello 0,8% previsto dalla Commissione europea e dall’Ocse sia dallo 0,9% del Fmi. Ciò vuol dire che se la crescita dovesse attestarsi sui livelli stimati delle istituzioni internazionali, il debito salirà anziché scendere.

 

C’è poi l’altro elemento fondamentale che contiene il debito pubblico: le privatizzazioni. E qui la questione si fa ancora più complicata. Perché il ministro Giorgetti, quasi a sorpresa, ha annunciato privatizzazioni per 20 miliardi – ovvero un punto di pil – su un orizzonte pluriennale. Vuol dire che sul triennio, l’arco temporale della Nadef, quasi il doppio dell’intera discesa del debito pubblico da qui al 2026 (0,6 punti di pil) dipenderà da questo piano di dismissioni di partecipazioni e proprietà statali che non è stato ancora svelato. “Per quanto riguarda il se e il quando queste privatizzazioni verranno effettuate, questo lo deciderà il ministro dell’Economia”, ha risposto Giorgetti rispetto a rumors sulla cessione di Mps.

 

Ma dato che tutta l’evoluzione del debito pubblico italiano dipende dalle privatizzazioni, più che decidere “se e quando”, il ministro dell’Economia dovrebbe spiegare “quando e come” queste privatizzazioni verranno realizzate. Perché l’obiettivo di 20 miliardi, pari a un punto di pil, è davvero arduo da raggiungere. Basti pensare che la partecipazione dello stato in Mps, che i vari governi che si sono avvicendati non vogliono o non riescono a vendere da sette anni, vale circa 2 miliardi: il Mef si è quindi posto come obiettivo quello di cedere sul mercato beni o partecipazioni pari a dieci Mps in tre anni, cioè oltre tre Mps all’anno. Nel Def approvato ad aprile, il governo Meloni prevedeva nel quadro programmatico introiti da dismissioni pari a circa lo 0,14% di pil nel triennio 2024-2026. Nel giro di cinque mesi, questo piano indefinito di privatizzazioni è cresciuto di sette volte, passando all’1% del pil. Senza una road map di cosa, come e quando il governo intende vendere, i suoi obiettivi di riduzione del debito pubblico sono poco credibili.

 

Anche perché i precedenti storici non giocano a suo favore. Anzi. Obiettivi analoghi furono fissati, sempre per mostrare un debito pubblico in discesa, dal primo governo Conte di cui peraltro proprio Giorgetti era sottosegretario a Palazzo Chigi. Nel Def 2019, il governo gialloverde indicò dismissioni per circa 1 punto di pil nel 2019 e dello 0,3% nel 2020. Alla fine dell’anno, gli introiti da privatizzazioni risultarono pari a zero, come zero erano stati l’anno prima (2018) e come zero saranno negli anni successivi: 2020, 2021, 2022 e 2023. Ma più in generale, anche negli anni precedenti, quasi mai gli obiettivi di privatizzazione fissati dai vari governi sono stati raggiunti.

 

Tanto per fare un paragone, il piano di “Valorizzazione del patrimonio delle Amministrazioni Pubbliche” del 2011 del governo Monti – che includeva la vendita di immobili, concessioni e  partecipazioni – prevedeva un incasso di 9,8 miliardi l’anno, circa la metà di quanto prevede Giorgetti. E neppure Monti riuscì a rispettare il target. È andata sempre così anche negli anni successivi: nel 2014 le privatizzazioni dovevano essere pari allo 0,7% del pil e invece si fermarono allo 0,2%; solo nel 2015 si è raggiunto lo 0,4% come annunciato; nel 2016 il governo Renzi aveva promesso lo 0,5% e ha fatto lo 0,1%; mentre nel 2017 aveva messo a bilancio lo 0,3% e alla fine non ha venduto niente. Dal 2017 oggi, gli introiti da privatizzazioni sono sempre stati pari a zero. Per giunta, nello stesso periodo in cui promettevano privatizzazioni i governi hanno fatto diverse nazionalizzazioni (Ilva, Tim, Alitalia, Autostrade...).

 

Pertanto, se Giorgetti e Meloni scrivono che il debito pubblico nel 2024 scenderà di appena un decimale a condizione che l’economia cresca dell’1,2% e che ci siano privatizzazioni per 6-7 miliardi l’anno, ciò che in realtà i mercati leggono è che il debito pubblico crescerà. E, in ogni caso, ciò che preoccupa è che – al netto delle misure one shot come le privatizzazioni – il debito pubblico ha un’evoluzione crescente, spinta dall’aumento della spesa per interessi e della spesa pensionistica. In un quadro del genere è difficile definire la politica di bilancio del governo, praticamente tutta in deficit, come “prudente”. Di sicuro non lo è abbastanza.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali