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I problemi del Pnrr

La discontinuità rispetto al piano di Draghi non paga. Lo stallo sul Pnrr spiegato dalla Corte dei conti  

Giorgio Santilli

L'analisi pubblicata dalla magistrature contabile pochi giorni fa rivela tutti i ritardi dell'Italia nello stato di attuazione del Piano nazionale ripresa resilienza

 L’atteggiamento di negoziazionismo esasperato con l’Unione europea (che non di rado sfocia nella guerra di nervi e si riflette anche nelle posizioni assunte in questi giorni sul Patto di stabilità e più tradizionalmente sul Mes) e la necessità di distinguersi a tutti i costi dal governo Draghi non hanno portato bene al Pnrr italiano. La relazione della Corte dei conti sullo stato di attuazione del piano, diffusa mercoledì 8 novembre, spiega, meglio di qualsiasi altro documento ufficiale finora pubblicato, lo stato di caos in cui il Recovery Plan italiano è piombato per effetto della revisione generale progettata per nove mesi e poi proposta all’Unione europea il 7 agosto scorso (per altro mai comunicata pubblicamente nel suo testo integrale e dettagliato). E, sia pure con un linguaggio spesso diplomatico, la Corte consente di leggere in controluce i rischi molto seri di questa partita.  Il rischio è che – con la scelta di Giorgia Meloni e di Raffaele Fitto in luogo di una opzione più continuista di lasciare andare la macchina amministrativa lanciata a mille e apportare le correzioni strettamente necessarie per accelerare la spesa – il governo si ritrovi in un tunnel senza uscita (e il paese pure). 


“Le informazioni allo stato disponibili – dice la Corte – non consentono una ricostruzione complessiva dell’impatto finanziario delle modifiche. La piena definizione delle esigenze di rifinanziamento e di tutte le risorse che si rendono disponibili per la riprogrammazione, la ricomposizione del quadro delle misure del Pnrr tra progetti in essere e nuove iniziative, nonché le modalità di copertura delle linee di intervento che fuoriescono dal piano continuando a trovare attuazione a valere su altri fonti finanziarie (a proposito: i progetti definanziati ammontano a 18 miliardi, non a 16, come aveva stimato il ministro Fitto, nda), rappresentano tutte variabili in grado di incidere sugli effetti che il nuovo Piano produrrà sulle grandezze di finanza pubblica”. Peraltro – e qui la Corte cela lo sconcerto con linguaggio diplomatico – la scelta delle nove linee da definanziare “appare volta ad anticipare possibili future difficoltà di rendicontazione della spesa, piuttosto che essere dettata da ostacoli nell’effettivo avanzamento delle iniziative”. In quanto – tornano a parlare i dati di fatto – “pur presentando ritardi in relazione alla programmazione iniziale, mostrano comunque andamenti di spesa più elevati rispetto al resto del piano (al netto delle misure consistenti in crediti di imposta), anche in ragione della componente di progetti in essere in esse presenti”.


Ma c’è un punto, sorprendente più degli altri, nella relazione dei magistrati contabili che dà una rappresentazione fedele anche delle difficoltà contingenti affrontate nelle cabine di regia di questi giorni con la decisione da prendere, se stralciare o meno il Terzo valico, imbottigliato insieme alla talpa bloccata nella galleria di Arquata. Il punto è che i “progetti in essere” che erano stati inseriti nel piano per dargli una maggiore velocità di spesa nella fase iniziale oggi appesantiscono ulteriormente il cammino del Pnrr e rischiano di mandarlo a fondo. Interessante l’analisi della Corte perché in fondo ci dice che lo slancio rigenerativo del Pnrr, pur tra le mille difficoltà di una burocrazia non abituata a ragionare sul principio di performance, dà più frutti dei progetti concepiti in passato e rientrati strumentalmente nel Pnrr. Lasciamo parlare la Corte, che anzitutto ci ricorda come siano 80, in linea generale, “le linee di intervento caratterizzate da maggiori criticità”. Ebbene, l’incidenza del numero di progetti è del 28 per cento sul totale che sale al 49,4 per cento se si considerano i valori finanziari, ma cresce al 54 per cento in termini di numeri di progetti e al 66 per cento in termini di importi di investimento se si considerano le “iniziative caratterizzate, anche solo parzialmente, dai progetti in essere”. La conclusione: ciò riflette “una maggiore difficoltà delle iniziative in essere di integrare i requisiti di ammissibilità e rendicontabilità previsti dal Pnrr, tra i quali il rispetto del principio di non arrecare un danno significativo (Dnsh)”. 


Questo stallo dei “progetti in essere” – va aggiunto per completare l’analisi – non dipende dall’aumento dei costi e dalla scarsità dei materiali, problemi enormi che, la Corte ne dà atto, sono stati affrontati e risolti brillantemente con le misure compensative nazionali create da Draghi e poi continuate da Meloni (il continuismo paga). Questo fattore pesa solo per il 17 per cento fra i profili di criticità del piano dove invece pesano il doppio (34 per cento) sia le responsabilità gestionali e realizzative in capo soprattutto alle imprese (“squilibrio offerta/domanda, investimenti non attrattivi, impreparazione del tessuto produttivo”) sia le responsabilità in capo alla burocrazia pubblica (“difficoltà normative, amministrative, gestionali”).  
 

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