questione di consenso

Altro che liberalizzazioni. Il governo dei taxi e delle corporazioni

Luciano Capone

L'Antitrust segnala la “strutturale inadeguatezza del numero delle licenze" a Roma, Napoli e Milano.​​​​​​ È la certificazione che con il decreto Asset l'esecutivo ha accontentato i tassisti, come ha fatto con ambulanti e balneari

Il governo ricorda costantemente e correttamente che le risorse sono poche, soprattutto in un contesto in cui è necessario attuare una politica di bilancio “prudente”, come ripete il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Ma spendere denaro non è l’unico metodo esistente per fare politica economica. Esistono riforme che promuovono la crescita economica e favoriscono i consumatori che sono a costo economico zero, sebbene abbiano un prezzo politico. Che però il governo e la maggioranza non intendono sobbarcarsi, soprattutto alla vigilia delle elezioni europee. Si tratta delle liberalizzazioni, che andrebbero effettuate in quei settori che però sono da sempre un importante serbatoio di voti della destra, come ad esempio taxi, balneari e ambulanti.

 

Così il governo, dovendo liberalizzare in accordo alle direttive europee e alla giustizia nazionale, ma non volendolo fare, ha scelto la via delle finte liberalizzazioni. Ieri l’Antitrust ha inviato una segnalazione ai comuni di Roma, Milano e Napoli “sulle criticità riscontrate nell’erogazione del servizio taxi a danno degli utenti, in termini di qualità ed efficienza del servizio reso”. Dall’analisi dell’Autorità per la concorrenza è emersa una “strutturale inadeguatezza del numero delle licenze attive rispetto alla domanda del servizio taxi”. A Roma le licenze sono 7.962 (2,8 ogni 1.000 residenti), a Milano 4.853 (3,5 licenze ogni 1.000 residenti) a Napoli 2.364 (2,6 ogni 1.000 residenti).

 

Pertanto, l’Antitrust chiede che i comuni aumentino l’offerta ben oltre il tetto del 20% fissato dalla procedura straordinaria introdotta dal decreto Asset. Insomma, la norma appena approvata dal governo è già inadeguata. E non solo perché, come rileva l’Antitrust, il 20% è poco. Ma anche per tutto il resto. La norma inizialmente prevedeva la possibilità di cumulare le licenze. Il ministro delle Imprese Adolfo Urso pensava di fare cosa gradita ai tassisti, che invece si sono ribellati, e hanno fatto immediatamente ritirare il provvedimento. Circostanza ammessa in maniera abbastanza naïf dallo stesso ministro: “I tassisti ci hanno chiesto di togliere la norma sul cumulo delle licenze, un’opportunità a cui rinunciano – ha dichiarato Urso –. Abbiamo tolto questa norma”.

 

Restano, sui taxi, due misure. La prima è la facoltà di rilasciare licenze aggiuntive stagionali e temporanee: solo in occasione di grandi eventi o eccezionali flussi turistici e massimo per due anni. Ma nessuno, o comunque pochissimi, fa un investimento importante come l’acquisto di un’autotaxi se l’orizzonte temporale è solo di qualche mese di lavoro. L’altra misura, la più importante, è quella citata dall’Antitrust: la facoltà per i comuni di aumentare con una procedura semplificata del 20% le licenze.

 

Il problema, però, è che a differenza della procedura ordinaria che distribuiva il ricavato della cessione onerosa delle nuove licenze all’80% come compensazione ai titolari delle vecchie e al 20% ai comuni, con la nuova procedura introdotta dal governo il 100% del ricavato andrà a compensare i soggetti titolari di licenza. È un forte disincentivo economico per i comuni ad adottare la nuova procedura accelerata, visto che già non utilizzavano quella ordinaria da cui ricavavano gettito. C’è insomma un motivo se un anno fa, quando il governo Draghi voleva mettere mano al settore i tassisti bloccarono le città e assediarono Palazzo Chigi, mentre ora non fanno neppure uno sciopero.

 

Su ambulanti e balneari, la storia è la stessa. La direttiva Bolkestein prevede una messa a gara delle concessioni per il commercio ambulante e il governo, in una norma paradossalmente chiamata ddl Concorrenza, formalmente dice che si dovranno fare nuove gare ma in sostanza rinnova le concessioni attuali per 12 anni: così chi è nei posti migliori delle grandi città e dei centri turistici continuerà a restarci.

 

Sulle concessioni balneari – che secondo tutti i tribunali a eccezione del Tar di Lecce, dalla Corte di Giustizia Ue al Consiglio di stato, scadono il 31 dicembre 2023 e vanno messe a gara – il governo si è inventato un “tavolo” con l’obiettivo di dimostrare che le spiagge non sono una risorsa scarsa e quindi non vanno messe a gara. Dal tavolo è emerso che solo il 33% delle aree demaniali delle coste è in concessione, mentre il 67% non lo è. Quindi non ci sarebbe bisogno di fare gare. Si tratta di un dato mistificatorio. In primo luogo perché i due terzi di costa “libera” includono di tutto: scogliere, spiagge inaccessibili, rocce, aree con fondali profondi, zone poco turistiche... Inoltre il dato dovrebbe essere più granulare, a livello comunale. Perché nelle zone più turistiche, dove le concessioni superano il 50-60%, i comuni hanno dei vincoli sulle spiagge da lasciare libere. Quindi si tratta di aree che non possono essere messe a gara.

 

È altamente improbabile che in Europa si facciano prendere per il naso in questo modo. Il problema, però, è che in questo caso la mancata liberalizzazione costerà una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia che porterà a multe salate a carico della collettività. Ma la strategia del governo è evidente: tutelare l’interesse concentrato di pochi, a discapito di quello diffuso di contribuenti e consumatori.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali