Tasse

Deduzione Ires per le assunzioni? Meglio farla per la formazione

Francesco Armillei

I rischi legati alla riduzione delle tasse per i nuovi contratti a tempo indeterminato sono più che concreti

"Più assumi, meno paghi” era uno degli slogan di Fratelli d’Italia durante la campagna elettorale. Ora il governo Meloni vuole tradurre in pratica quella promessa, e lo strumento immaginato è una deduzione Ires per le nuove assunzioni di personale a tempo indeterminato. Così infatti si legge nella bozza di decreto fiscale in circolazione in questi giorni, che prevede che per l’anno 2024 le imprese possano dedurre dalla base imponibile Ires il 120 per cento del costo del lavoro proveniente da nuove assunzioni a tempo indeterminato. L’Italia non è nuova all’utilizzo di misure fiscali di incentivo all’assunzione: gli ultimi dieci anni hanno visto un fiorire di questo tipo di misure e nel suo ultimo Rapporto annuale l’Inps ne censiva sette diverse tipologie attive, per un costo totale di 7,5 miliardi nel 2022. Tutti questi incentivi erano e sono però forme di riduzione del costo del lavoro attraverso un abbattimento del monte contributivo dovuto dalle imprese all’Inps per eventuali nuovi assunti: sul fronte tecnico la misura proposta dal governo rappresenta quindi un interessante cambio di approccio. 

Quanto all’efficacia, queste misure negli anni passati hanno funzionato: per fare un esempio, gli incentivi contenuti nel Jobs Act sono stati responsabili del 40 per cento delle assunzioni registrare nei mesi successivi l’introduzione, secondo due ricercatori della Banca d’Italia. Se simili numeri possono quindi far guardare con ottimismo alla nuova proposta del governo, le aspettative molto probabilmente vanno però ridimensionate e un approccio meno entusiasta sembra opportuno. La questione centrale è che il contesto è molto cambiato rispetto al periodo in cui gli sgravi contributivi si sono rivelati efficaci. In primo luogo, il tasso di disoccupazione è oggi ai suoi minimi per la storia recente, intorno al 7,3 per cento. In più le imprese sono già oggi a caccia di lavoratori anche senza bisogno di particolari incentivi, come segnala il tasso di posti vacanti ai suoi massimi storici, intorno al 2,1 per cento, un numero quasi doppio rispetto al periodo pre-pandemico. 

In generale, insomma, ci troviamo in una fase di (moderata) espansione, e non più in una di recessione come negli anni ’10. E questa differenza è cruciale nel valutare l’opportunità di introdurre nuovi incentivi alle assunzioni. Lo segnala anche una ricerca pubblicata nel 2021 nel Journal of Public Economics, che argomenta proprio come gli incentivi alle assunzioni siano efficaci nei periodi di recessione (quando molte imprese si ritrovano a corto di liquidità), mentre nei periodi di crescita i soldi trasferiti dal governo finiscano nelle tasche dei datori di lavoro senza tradursi in una particolare crescita dell’occupazione. In sostanza, il rischio concreto è che questa nuova misura di deduzione Ires, nonostante le buone intenzioni, si traduca in un regalo a quelle imprese che già avevano intenzione di assumere (e che ora lo faranno a un costo minore), ma di fatto non riesca a convincere chi non voleva o non poteva assumere a farlo, lasciando così alla fine dei giochi inalterato il livello di occupazione

Allargando la prospettiva, inoltre, più che una “emergenza quantità”  in questo momento il mercato del lavoro italiano affronta una “emergenza qualità”: è la qualità dei posti di lavoro su cui ci dobbiamo concentrare, più che sulla loro quantità. Non ci stancheremo mai di ripetere che la produttività del lavoro in Italia è stagnante da decenni, e questo limita la crescita economica e a cascata qualcosa di ancora più importante: il benessere e la qualità di vita dei lavoratori. In più ci attendono anni in cui affronteremo almeno tre fondamentali sfide: l’adattamento demografico, l’adattamento climatico e l’adattamento tecnologico. 

In un simile contesto, quindi, il vero obiettivo da perseguire non è quello di gonfiare i numeri dell’occupazione, ma quanto di creare posti di lavoro di maggiore qualità, resilienti rispetto alle sfide che ci attendono. Un obiettivo che le imprese per prime sono chiamate a perseguire, ma che le politiche pubbliche possono accompagnare. E quindi invece che una deduzione per le nuove assunzioni, perché non spingere l’acceleratore sulla formazione dei lavoratori, aumentando la deduzione per quelle imprese che investono nelle competenze e nelle conoscenze dei propri dipendenti? Una simile norma potrebbe rappresentare anche una leva utilizzabile dal governo per orientare, circoscrivendo in maniera opportuna l’utilizzo degli incentivi, il tipo di formazione verso ciò che è maggiormente efficace per la creazione di posti di lavoro di qualità.

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