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Colpevolissime evasioni. Le parole false e demagogiche di Meloni sul "pizzo di stato"

Luciano Capone

Le dichiarazioni della premier sull’evasione sono sconcertanti per modi e contenuti. In Italia evadere è un fenomeno di massa, inversamente proporzionale alla dimensione dell’impresa. La premier legittima l'evasione della massa dei piccoli perché votano, mentre le multinazionali no

Il centrodestra ha stravinto anche a Catania, dove il candidato di FdI ha raccolto oltre il 60% dei voti. Proprio nella città etnea, venerdì scorso, Giorgia Meloni aveva chiuso la campagna elettorale illustrando con un intervento la strategia del governo sull’evasione: “La lotta all’evasione fiscale si fa dove sta davvero l’evasione fiscale: le big company, le banche, le frodi sull’Iva, non il piccolo commerciante al quale vai a chiedere il pizzo di stato”, ha detto la premier, aggiungendo le solite storie sul nuovo “rapporto tra stato e contribuente” e sul “fisco amico”.

 

Il discorso della presidente del Consiglio è sconcertante su più piani. Il primo è quello della scelta lessicale del “pizzo di stato” per parlare delle tasse in una terra, la Sicilia, che è stata dominata dalla mafia e in cui troppo a lungo una fetta della popolazione ha fatto fatica a distinguere le leggi dello stato da quelle della criminalità organizzata. Per chi sostiene di aver iniziato a fare politica sull’emozione dell’uccisione del giudice Borsellino, sono termini imbarazzanti.

 

Il secondo piano è quello istituzionale. Meloni ricopre il ruolo di presidente del Consiglio, quindi è “Capa dei capi” della presunta “Cupola” che esige il “pizzo di stato”. Ma se ritiene le pratiche di riscossione para mafiose, non si comprende perché abbia confermato come direttore dell’Agenzia delle entrate Ernesto Maria Ruffini, che è al vertice dell’agenzia da molti anni e con governi di diverso colore politico. Meloni ha confermato Ruffini perché è capace ed è riuscito, grazie a modifiche legislative contro cui spesso la destra si è opposta, a ridurre l’evasione fiscale con metodi lontani da quelli dell’èra Befera, quando lo stato si proponeva di “incutere timore” nei contribuenti.

 

Ma soprattutto le parole di Meloni sono imbarazzanti sul piano della verità. Perché è falso che l’evasione fiscale riguarda le multinazionali e non il piccolo commerciante. Anzi, è vero l’esatto contrario. E non perché le multinazionali siano oneste e i piccoli commercianti disonesti, o viceversa. Non c’entra nulla la morale. È che la possibilità di evadere è in genere inversamente proporzionale alla dimensione dell’impresa. È probabile che un piccolo negozio non emetta lo scontrino, mentre non accade mai in un supermercato della grande distribuzione. E questo non per una diversità “etica” degli operatori economici, ma perché nelle grandi imprese organizzate in modo impersonale la registrazione degli incassi è anche un processo di contabilità e controllo interno.

 

È naturalmente possibile che le grandi imprese evadano le imposte con altre modalità, ma in Italia l’evasione è sostanzialmente un fenomeno di massa. Non solo perché la nostra struttura produttiva è composta da milioni di micro e piccole imprese, ma soprattutto perché sono queste imprese che hanno maggiore possibilità di evadere. Lo dicono i numeri dello stesso governo Meloni, quelli della “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale”, pubblicata ogni anno dal ministero dell’Economia. I dati dell’ultima relazione, che accompagna la Nadef del governo Meloni, mostrano che nel 2020 l’evasione Irpef da lavoro dipendente è di 3,8 miliardi, mentre l’evasione da lavoro autonomo e impresa di 28,3 miliardi. Sempre secondo la stessa relazione, la propensione all’evasione è del 2,4% per i dipendenti e del 69,7% per gli autonomi. La propensione all’evasione dell’Ires, l’imposta sui redditi delle società, è del 24% (ma va considerato che l’Ires la pagano non solo le multinazionali, ma anche tantissime piccole imprese). Meloni parla di “truffe sull’Iva”, come se riguardassero le multinazionali. Nel confronto europeo dell’evasione Iva, l’Italia ha un tax gap del 20,8%, simile alla Grecia (19,7%), mentre quello della Francia è all’8% e della Germania al 4,8%. Non è un caso che Italia e Grecia abbiano un tessuto produttivo con molte più pmi e più evasione Iva, mentre Francia e Germania abbiano molte più big company e meno evasione Iva.

 

C’è poi un altro piano che rende il discorso di Meloni incoerente. Negli anni la destra ha sempre detto che per ridurre l’evasione è necessario abbassare le aliquote e poi adottare massima severità nei confronti di chi “sgarra”. Attualmente, con la cosiddetta flat tax al 15%, ai redditi di lavoro autonomo e impresa fino a 85 mila euro è chiesta già una tassazione più bassa rispetto ai lavoratori dipendenti. Altro che “pizzo di stato”: è un “privilegio di stato”. Per coerenza, Meloni dovrebbe pretendere maggiore severità nei confronti di chi gode delle agevolazioni del regime forfettario. Invece no. La premier, a suo modo, difende e quindi legittima la “piccola” evasione di massa, che è uno dei problemi strutturali della nostra economia non solo in termini di gettito ma anche di produttività delle imprese, e punta il dito contro le “multinazionali”. E la ragione è semplice: la massa dei piccoli commercianti vota, mentre le big company no.

 

Il tema del rapporto tra lotta all’evasione e consenso politico è ovviamente complesso e non si risolve con la caccia alle streghe e lo stato di polizia fiscale: alla repressione andrebbero affiancate semplificazione e riduzione delle aliquote con il gettito recuperato (mentre finora, a fronte di una riduzione costante dell’evasione, la pressione fiscale aumenta costantemente). Ma questo esige un impegno maggiore del governo e serie riforme sul lato della riscossione e della spesa pubblica, che è ciò che assorbe qualsiasi “extragettito” sottratto all’evasione fiscale. Ma se Meloni ricorre ai soliti slogan falsi e demagogici dimostra che non ha intenzione di riformare il paese attraverso il consenso, ma di ricercare il consenso a costo di non riformare il paese.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali