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l'analisi

Gli effetti ottici e le acrobazie contabili della Nadef

Lorenzo Codogno

Superbonus, decontribuzione e privatizzazioni, le tre criticità di un quadro di finanza pubblica molto fragile

L’impressione, leggendo la Nota di Aggiornamento al Def (Nadef) da poco pubblicata, è che sia il frutto di un lavoro a ritroso, un approccio non inusuale neppure in passato. Ovvero si è partiti dal minimo sforzo necessario per rispettare le raccomandazioni europee nell’anno di transizione dall’attuale quadro giuridico del Patto di stabilità e crescita alla nuova governance economica europea. 

Si doveva mostrare un miglioramento nella riduzione della “spesa primaria netta”, quale nuovo indicatore operativo principale per la valutazione della politica fiscale. Secondo le stime del Mef, il tasso massimo di crescita di questo aggregato doveva essere dell’1,3 per cento, compatibile con un miglioramento del saldo strutturale di 0,7 punti percentuali di pil. E poi ovviamente vi era la necessità di ricondurre l’indebitamento netto all’interno della soglia del 3 per cento entro l’orizzonte di previsione. Infine, il rapporto debito/pil doveva evidenziare quantomeno un calo marginale. 

Per evitare che la pressione fiscale salisse da livelli già elevati e ridurre, sia pur di poco, il rapporto debito/pil, le proiezioni sulla spesa primaria corrente in termini reali dovevano esser tagliate, ed anche in modo significativo. Tenuto conto della rigidità della maggior parte delle voci di spesa e in mancanza di indizi su spending review e grandi iniziative di riforma, una riduzione ancor più pronunciata avrebbe fatto venir meno la credibilità dell’intero esercizio di programmazione. Continuando a lavorare a ritroso, sono così emersi alcuni modesti margini per finanziare le iniziative nell’ambito della legge di Bilancio e del decreto legge in preparazione: 3,2 miliardi per il 2023, 15,7 miliardi per il 2024, e 4,6 miliardi per il 2025. 

La scarsa ambizione nel correggere l’andamento della finanza pubblica è deludente, ma d’altro canto un coraggio maggiore sarebbe stato scarsamente credibile senza una strategia più convincente. Forse proprio in queste semplici considerazioni sta la situazione di grande criticità e impasse per le finanze pubbliche. Ma, come se non  bastasse, ci sono altri tre elementi importanti. 

Il primo è il Superbonus. Gli storici lo ricorderanno come l’iniziativa di bilancio più scellerata dal dopoguerra; e questo giornale ne ha già più volte trattato. L’attuale governo non ne ha responsabilità, ma se ne deve far carico. Non basta infatti dire che la colpa è di qualcun altro. Bisogna metterci una pezza. Già in passato i sussidi edilizi erano stati estremamente generosi, ma non sufficientemente efficaci e non potevano essere usufruiti dagli incapienti. E quindi perché non rendere i crediti fiscali trasferibili? Dietro questo nobile intento però si celava il desiderio di realizzare il sogno di una moneta fiscale, che più di qualcuno coltivava in segreto. Era gioco forza che prima o poi Eurostat se ne sarebbe accorta. Ma, ironia della sorte, il tempismo delle sue decisioni è stato perfetto. Infatti ha imposto l’emersione del deficit per competenza al momento della creazione dei crediti fiscali, rigonfiando il 2020-2023 – ma poco importa perché era il momento del “liberi tutti” – a favore degli anni 2024-2027, quando le regole fiscali europee torneranno in vigore.  Si è così creato spazio fiscale per l’attuale governo (salvo un possibile ripensamento di Eurostat, come avanzato nella sua ultima lettera). Se da un punto di vista contabile, la decisione di Eurostat è ineccepibile, i riflessi di cassa si avranno pienamente solo nel tempo. 

Nella Nadef c’è un riquadro su “Superbonus 110: revisione dell’impatto sulle finanze pubbliche”, ma in realtà ci sono ben pochi numeri e dettagli. Quindi, rivedere il profilo dei conti pubblici secondo un criterio strettamente economico non è facile. Di sicuro, in quattro anni c’è stata una spesa di circa 135 miliardi (più del 6,5 per cento di pil) e i risultati economici non sembrano essere esaltanti. 

Inoltre, aggiungendo la riduzione del cuneo fiscale per gli anni successivi al 2024 i conti peggiorano.  Ricordate le famose “clausole di salvaguardia”? Erano un espediente per mostrare un miglioramento prospettico nei conti pubblici anche se questo in effetti non c’era. Ebbene, le nuove clausole si chiamano “cuneo fiscale”. Non ha senso tagliare il cuneo fiscale per poi finanziarlo solo per un anno. Anche in questo caso non è colpa dell’attuale governo, ma anch’esso ha pensato bene di rifinanziarlo solo per dodici mesi. Per il futuro si vedrà. Se però lo si considera – come è prevedibile che sarà – un provvedimento permanente, il deficit e il debito nei prossimi anni peggiorano. 

Infine, ho anche tolto parte delle privatizzazioni: 20 miliardi sono molto difficili da realizzare con le tempistiche ipotizzate, a meno che non si vogliano intaccare le partecipazioni in società quotate, che offrono un flusso di dividendi interessante per le casse dello stato. 

Il risultato? La spesa primaria netta e il saldo strutturale mostrano dinamiche meno favorevoli e non più in linea con le raccomandazioni europee, e il rapporto debito/pil non scende più. Emerge dunque in tutta la sua criticità la fragilità dell’attuale scenario. Forse non ha più senso pretendere che tutto si tenga insieme. E’ tempo di cambiare strategia e puntare fortemente sulle riforme e sugli investimenti anziché su provvedimenti estemporanei e poco omogenei, unitamente a una revisione complessiva della spesa. Ridare un grande slancio alla crescita economica è la strada maestra per uscire dal problema del debito, abbinandola ovviamente ad un equilibrato consolidamento fiscale. Se non nell’attuale contesto di forte supporto alla domanda per i prossimi due-tre anni, quando mai giungerà l’atteso cambiamento di rotta?
 

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