Giancarlo Giorgetti (foto Ansa)

verso l'autunno

La crescita non la fanno le manovre, ma la voglia di rischiare

Nicola Rossi

Invece di scusarsi per una legge di Bilancio prudente, i politici la rivendichino. L'economia non dipende dalle misure del governo. Lo stato piuttosto garantisca stabilità interna e internazionale

Il dibattito agostano sulle scelte autunnali di finanza pubblica è, per l’appunto, un dibattito agostano. Destinato nella gran parte dei casi a non lasciare traccia, scritto sulla sabbia. Solitamente caratterizzato da una disordinata sommatoria di proposte o da una altrettanto disordinata sommatoria di possibili coperture. Le une e le altre prive delle solide basi che spesso solo la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza è in grado di offrire. Frutto, le une e le altre, più della paura del vuoto che tipicamente accompagna il mese di agosto che non di una piena consapevolezza dei margini di manovra disponibili. In questo agosto, però un elemento di novità si staglia nitido su tutti. Autorevoli esponenti dell’esecutivo e della maggioranza sembrano fare a gara nello scusarsi con gli italiani (e con i loro elettori) perché nella prossima sessione di bilancio “non sarà possibile fare tutto”.

 

John Maynard Keynes sosteneva che “gli uomini politici sono di solito schiavi di qualche economista defunto” e l’aforisma si applica alla lettera alla situazione attuale. La classe politica italiana è intellettualmente succube della convinzione – affermatasi in particolare negli ultimi lustri – secondo cui le prospettive di crescita di una economia e il benessere di una società discendono linearmente dallo sforzo che annualmente la finanza pubblica compie (ovviamente a debito). Talché non è raro osservare donne e uomini politici intenti a leggere le tendenze economiche future nei fondi di caffè della manovra di finanza pubblica: più imponente quest’ultima, più inevitabili le “magnifiche sorti e progressive” dell’economia nazionale, più esigua quest’ultima, più incombente lo spettro dell’austerità e con esso della decadenza economica del paese.

    

Il silenzio su questi aspetti del presidente del Consiglio rappresenta, in questo contesto, un segnale di ragionevolezza e di lucidità. Non solo perché in vacanza spesso si straparla – e gli anni passati non sono stati privi di esempi significativi – ma soprattutto perché potrebbe forse preludere a un messaggio al paese in grado di invertire realmente la rotta rispetto alle spesso patetiche passate legislature: la crescita – quella vera, quella duratura, quella capace di tradursi in livelli di benessere sempre più elevati, quella capace di attenuare le disuguaglianze – non la fanno le leggi di bilancio, ma la voglia di rischiare e di intraprendere degli individui, la loro determinazione a riconquistare i livelli di benessere persi in questi ultimi decenni, le loro aspirazioni. A quella voglia, a quella determinazione, a quelle aspirazioni lo stato deve offrire uno sfondo fatto di stabilità interna e internazionale, di certezze normative e comportamentali, anche di una rete di sicurezza lì dove effettivamente necessaria. Uno sfondo fatto di una struttura di incentivi virtuosa, capace non solo di “non disturbare chi fa” ma di spianargli la strada, di rendergli quotidianamente la vita più semplice nei rapporti con la pubblica amministrazione o con il fisco, di non offrirgli mai la comoda scappatoia di una soluzione pubblica lì dove invece esiste una via d’uscita privata.

  

Se “non sarà possibile fare tutto” non è per via del destino cinico e baro ma perché il “fare tutto” non è nelle cifre del bilancio dello stato ma piuttosto nelle cifre di migliaia di bilanci privati su cui il governo dovrebbe oggi fare leva perché un programma di investimenti pubblici straordinario come il Pnrr e le riforme – prima fra tutte quella fiscale – messe in campo siano accompagnate da un settore privato tornato ad essere quello che è stato in alcuni rari momenti della storia italiana: il vero artefice dei livelli di benessere che abbiamo sperimentato fino a quando non abbiamo deciso – per dirla con Olof Palme – che la pecora non andava solo tosata ma messa in condizione di non produrre più la lana. I consigli non richiesti non a caso sono, appunto, non richiesti ma se fosse possibile darne uno in questo caso suonerebbe così: gli esponenti dell’esecutivo e della maggioranza non avvertano come una diminutio una manovra di finanza pubblica moderata, prudente, intesa a rispettare obbiettivi che sono domestici molto prima di essere europei, ma, al contrario, rivendichino con orgoglio il cambio di passo rispetto al più recente passato e chiamino a raccolta famiglie ed imprese, offrano loro nuovi strumenti e nuovi obbiettivi, li aiutino a tirarsi fuori dalla condizioni di minorità in cui le politiche degli ultimi anni li hanno colpevolmente confinati. La posta in palio nella prossima manovra di finanza pubblica va molto oltre le cifre che le Camere approveranno entro l’anno. Perché a spender soldi sono bravi anche gli asini ma per sollevare gli animi c’è bisogno della politica migliore.