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L'analisi

Fisco e contribuenti. Due appunti al direttore dell'AdE Ruffini

Nicola Rossi

Gli obiettivi connessi al potenziamento dell’Agenzia delle Entrate e al rapporto fra fisco e contribuente, intesi a superare l’atteggiamento punitivo che lo ha contraddistinto ultimamente, sono coerenti con i punti più interessanti della delega fiscale

La recente intervista del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Ruffini, riporta sul terreno dei fatti concreti un dibattito – quello sull’evasione fiscale – dominato spesso e volentieri da una vuota demagogia. E lo fa a partire da un atto che più concreto non potrebbe essere: la convenzione con cui vengono fissati gli obbiettivi dell’Agenzia per il triennio 2023-2025, un atto al quale sarà opportuno fare riferimento ogni volta che si vorrà commentare la posizione assunta dall’esecutivo nei confronti del fenomeno dell’evasione fiscale. Per non parlare a sproposito.

In questa prospettiva, può essere fuorviante concentrare l’attenzione sui 2,8 miliardi di euro derivanti dalla lotta all’evasione che il governo ha individuato come obbiettivo per l’azione dell’Agenzia. Assai più rilevanti e destinati a produrre effetti perduranti nel tempo, se perseguiti con determinazione, sono infatti gli obbiettivi connessi, per un verso, al potenziamento dell’Agenzia (in termini di raccolta ed elaborazione delle informazioni, oltre che in termini di personale) e, per altro verso, relativi al diverso rapporto fra fisco e contribuente e dunque all’attività di accompagnamento (anche informativo) di quest’ultimo nonché alla attività di prevenzione dei comportamenti che solitamente preludono alla o sfociano nell’evasione vera e propria. Obbiettivi, questi ultimi, coerenti con alcuni degli elementi più interessanti della delega fiscale – relativi al momento della riscossione e alla disciplina delle sanzioni – tutti intesi a superare non il rigore che necessariamente deve contraddistinguere l’azione del fisco ma l’atteggiamento punitivo e fine a se stesso che ha contraddistinto il modo di essere del fisco nell’ultimo quarto di secolo contribuendo significativamente ad aggravarne limiti e disfunzioni e, nel contempo, allargando il solco sempre di più rispetto ai contribuenti. Soprattutto a quelli leali.

Ciò premesso, sia consentito sottolineare alcuni aspetti più discutibili. Nell’intervista del direttore dell’Agenzia non mancano infatti tanto una significativa omissione quanto un’altrettanto significativa, ma non necessariamente condivisibile, affermazione. Si riconosce che meno del 20 per cento del totale dell’evasione riguarda la cosiddetta “evasione da versamento” e cioè i casi di contribuenti che dichiarano fedelmente quanto devono al fisco salvo poi non procedere al conseguente versamento. La significativa omissione riguarda esattamente queste fattispecie che visibilmente segnalano una piena disponibilità dei contribuenti interessati a onorare gli obblighi fiscali ma contestualmente evidenziano una difficoltà a dare seguito alle intenzioni. Le ragioni che fanno sì che il fisco non consideri queste fattispecie come meritevoli di un’attenzione particolare sono comprensibili – e attengono, fra l’altro, alla parità di trattamento dei contribuenti – ma trattandosi di una minoranza di casi non è del tutto chiaro perché il fisco non possa comportarsi in questi casi come un qualunque creditore interessato, in primo luogo, alla sopravvivenza del debitore purché prima o poi paghi. In altre parole, sarebbe realmente così improponibile stabilire un rapporto con il contribuente che dichiara ma non ottempera per definire con lui, in maniera personalizzata, i termini di un suo rientro nella regola? Concordare in termini oggettivi ma non standardizzati percorsi di adeguamento all’obbligo fiscale? Perché nel momento della spesa teniamo spesso conto delle caratteristiche dell’utente e non altrettanto nel momento della riscossione?

Potenzialmente più rilevante e in senso non necessariamente positivo, invece, l’affermazione moralistica secondo cui “in una democrazia i soldi dell’evasione si recuperano non per conto dell’imperatore, ma a vantaggio della collettività”. Il direttore Ruffini fa infatti torto alla sua intelligenza: è noto da tempo che le classi dirigenti, anche in democrazia, spesso e volentieri perseguono – legittimamente, sia chiaro – obbiettivi che poco o nulla hanno a che fare con gli obbiettivi della collettività. Sarebbe stato molto più interessante e istruttivo se il direttore Ruffini avesse detto la verità: l’evasione rappresenta un prezzo non pagato per la fornitura di servizi di cui spesso e volentieri gli evasori fanno uso senza remore. E come accade per tutti i prezzi non pagati, è nel pieno diritto del fornitore bussare alla porta del cliente “distratto”. Nulla di meno ma anche nulla di più di questo. Sarebbe stato molto più interessante e istruttivo se poi il direttore dell’Agenzia avesse aggiunto che sarebbe auspicabile che quanto prima all’Agenzia delle Entrate si affianchi un’Agenzia delle Uscite in grado di controllare sulle modalità di fornitura dei servizi, di operare nella prevenzione degli sprechi della Pubblica amministrazione e con gli stessi strumenti oggi a disposizione del fisco. Ai comportamenti penalmente rilevanti degli amministratori pubblici provvedono le norme, ma spesso e volentieri accettiamo che il livello qualitativo della spesa pubblica sia irragionevolmente inadeguato o che la stessa non sia ispirata a criteri anche elementari di efficienza ed efficacia quando senza difficoltà potrebbe invece esserlo. E lo accettiamo con rassegnazione (né, con tutto il rispetto, le requisitorie della Corte dei Conti possono consolarci sotto questo aspetto). E lo accettiamo nonostante si tratti delle stesse risorse che il fisco ci chiede nelle forme e nei modi più disparati. 

La vicenda tanto annosa quanto penosa della spending review così come il dibattito mistificatorio sulle regole fiscali sono da questo punto di vista esemplari: gli interessi della collettività si perseguono non identificando la collettività stessa con chi la amministra, ma prendendo atto che gli interessi delle due parti sono spesso – legittimamente, ripeto – contrastanti. E comportandosi di conseguenza.