Boiardo chi molla!

Ruffini e non solo. Il deep state di cui Meloni non sa fare a meno

Valerio Valentini

Descalzi le scrive il Piano Mattei, Gabrielli le suggerisce la riforma dei servizi segreti. E poi Franco per la Bce, e Figliuolo e Cingolani. Erano i nemici da abbattere. Sono la salvezza della premier

Erano il suo spauracchio. Sono la sua salvezza. Incarnavano, nell’epica  sovranista, la minaccia da estirpare col machete; sono  gli unici su cui lei possa davvero fare affidamento. Eccoli, gli oscuri agenti del deep state al servizio di Giorgia Meloni. Si prenda Ernesto Maria Ruffini. Anni trascorsi a prendersi gli insulti dei Fratelli d’Italia (Meloni dixit, era il giugno 2022: “E’ uno che straparla di evasione”), salvo poi vedersi confermato alla guida dell’Agenzia delle entrate proprio dalla leader di FdI. E siccome i ravvedimenti di Meloni hanno  tempi lunghi,  lei continuava a condannare il “pizzo di stato” e le pratiche “assurde” dell’Agenzia, colpevole di fare “caccia al gettito”. Che però sono proprio le pratiche che ora consentono a Meloni, alla disperata ricerca di spiccioli, di poter contare su quasi 3 miliardi in più.

Ma non c’è solo Ruffini. Se davvero a ottobre, come Meloni ha annunciato, questo fantasmatico “Piano Mattei” potrà diventare qualcosa di meno fumoso di quel che è parso finora, lo si deve infatti proprio alle tante richieste di suggerimenti che dallo staff della premier arrivano – perfino per gli aspetti più banali legati alla comunicazione – al presidente dell’Eni, quel Claudio Descalzi che Meloni ha accettato di ereditare da Draghi e da Conte, e da Renzi prima di loro. Deep state in purezza. Eppure. 

Eppure perfino sulla abbozzata riforma dei servizi segreti, c’è aria di trasversalità, se è vero che da Palazzo Chigi, per confutare le tesi di chi obietta che unificare le agenzie di intelligence in un unico apparato centralizzato è roba da stato sudamericano, rispondono segnalando, e a ragione, che tra quanti hanno ispirato questa ipotesi di ristrutturazione radicale c’è Franco Gabrielli. Uno che a destra è sempre stato considerato “di sinistra”. Uno che aveva la delega ai servizi con Mario Draghi. Cose di pazzi. 
Ma d’altronde è proprio l’ansia di raccogliere l’eredità del suo predecessore a Palazzo Chigi che induce Meloni alle abiure più clamorose. Dunque ecco il generale Figliuolo, criticatissimo dalla capa di FdI ai tempi della campagna vaccinale, voluto a ogni costo dalla premier, anche al prezzo di innescare un mezzo trambusto nelle alte gerarchie della Difesa, per la ricostruzione della Romagna alluvionata. Dunque ecco l’ex ministro draghiano dell’Ambiente, Cingolani, arruolato subito come consigliere, poi promosso da Meloni a capo di Leonardo contro i pareri di mezzo partito.

E nel segno di Draghi sono anche le scelte meloniane sulla Bce. Non solo perché proprio dal vertice di quella che fino a qualche anno fa era, per Donna Giorgia, “una banda di aguzzini”, è stato scelto il prossimo governatore della Banca d’Italia. Il punto è  che, una volta rimosso Fabio Panetta dal board di Francoforte, finalmente Meloni avrebbe potuto puntare su uno dei suoi economisti di riferimento: di quelli che le suggerivano l’Italexit, per dire, o la convincevano a invocare i prestiti che il Fondo monetario internazionale riserva per i paesi sottosviluppati anziché quelli del Recovery plan. E invece, al dunque, il candidato che il governo sovranista vuole presentare a Bruxelles per ottenere una rappresentanza italiana all’Eurotower è Daniele Franco. E non è un omonimo. E’ proprio quel Daniele Franco che, da ministro dell’Economia di Draghi, si vedeva bersagliato ogni giorno dalle accuse di FdI.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.