Si fa presto a dire liberismo, ma le riforme non bastano

Nicola Rossi

La fede nel “potere” e la sfiducia nell’individuo. Perché in Italia manca una cultura della responsabilità, del rischio, dell’intrapresa

Privatizzazioni, liberalizzazioni, disciplina di bilancio, autorità monetarie indipendenti… A quanto pare, il liberismo (il prefisso “neo” è talmente “paleo” che non merita considerazione) è tutto qui. In una serie più o meno estesa di provvedimenti normativi e di atti regolamentari. Poco? Molto? Non è rilevante. Quel che rileva è che chi adotta questa prospettiva non riesce a immaginare altro se non che il mondo ruoti intorno al “potere” e ai sui comportamenti, che tutto promani dal “potere” e che solo attraverso i suoi atti sia possibile comprendere il mondo che ci circonda. Gli individui esistono, in questa rappresentazione della realtà, solo in quanto destinatari passivi di quegli atti e oggetti di quei comportamenti. E di conseguenza diventa inevitabile arrivare alla conclusione che se quegli atti e quei comportamenti non hanno avuto le conseguenze previste è solo perché è mancata “una strategia economica coerente” e dunque perché il “potere” non ha fatto (o non ha saputo fare) abbastanza. Ben altro avrebbe dovuto o voluto fare.

E così Ronald Reagan si riduce al taglio delle tasse e al vittorioso confronto con i sindacati dei controllori di volo. E Margaret Thatcher alle privatizzazioni, alle deregolamentazioni e alla vittoriosa battaglia contro i sindacati dei minatori. E così tanto del primo quanto della seconda diventa inevitabile dimenticare che dissero: “Nessun arsenale e nessun’arma negli arsenali del mondo è così formidabile quanto la volontà e il coraggio morale degli uomini e delle donne liberi” (il primo) o “Lasciate che i nostri figli crescano alti, e alcuni più alti degli altri se saranno in grado di farlo” (la seconda). E sono solo due delle tante citazioni possibili. Nulla di strano. Una parte anche molto significativa della società italiana non riesce – legittimamente, sia chiaro – a leggere sé stessa se non attraverso le lenti, i comportamenti, gli atti del “potere”.  Quel “quid ignorabile, non visto, non sentito, impalpabile, creato apposta, non si sa quando né come, per sollevare e dominare su tutto l’ordine sociale” di cui parlava Francesco Ferrara nella seconda metà dell’Ottocento.

Salvo che atti e comportamenti del “potere” come quelli citati sono certamente necessari ma anche del tutto insufficienti se non poggiano su una disponibilità degli individui a mettersi in discussione, ad assumere rischi, ad accettare la possibilità di un fallimento, a sperimentare e provare nella convinzione di avere nelle proprie mani il proprio destino. In questo senso, il fatto che gli anni Novanta (e quelli ad essi contigui) siano stati segnati da una serie di riforme frutto di un più generale clima culturale poco o nulla dice sul liberismo italiano di quegli anni. Perché nessuna di quelle riforme fu accompagnata da un risveglio, anche minimo, di una cultura liberale in questo paese. Come fu evidente dopo la morte nella culla della prima fase di Forza Italia e come del resto non poteva non essere visto che quelle riforme furono “concesse ” al paese da una classe dirigente che al momento del battesimo era stata immersa in un’acqua che nulla aveva a che spartire con la cultura liberale e che dunque poco o nulla poteva contribuire al risveglio di quella cultura. Tanto meno condividerla, se e dove si fosse manifestata.

La vicenda degli ultimi venticinque anni è tutta qui. Riforme necessarie, forse, ma visibilmente insufficienti in assenza di una cultura della responsabilità, del rischio, dell’intrapresa. Non era e non è una novità. Nei primi quindici anni dopo l’Unità, la classe dirigente sabauda mise in campo una serie a dir poco impressionante di riforme intesa fare del nuovo Regno una economia di mercato alla pari di altre in Europa: a tutela dei diritti della persona e della proprietà, per l’allargamento e a difesa del mercato. Risultato: la stasi economica più assoluta. Perché quelle riforme erano patrimonio di una classe dirigente che – morto Cavour – di liberale aveva in buona misura solo il nome e non già degli italiani ai quali, anzi, si ritenne di dover imporre quelle riforme perché diventassero europei. Visto che da soli apparentemente non erano in grado o non volevano. Fin dai primi giorni della sua vita unitaria (e con la sola eccezione del ventennio immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale)  l’Italia – lungi dall’essere percorsa dai brividi della distruzione creatrice schumpeteriana – ha vissuto all’ombra di una “protezione distruttrice” (per usare il titolo di una recente ricerca promossa dall’Istituto Bruno Leoni). Gli ultimi venticinque anni non fanno eccezione. Gli esempi richiederebbero ben altro spazio ma basterà qui ricordare come, solo cinque anni fa, si proclamò da un balcone – i balconi si ripetono nella storia di questo paese – l’abolizione della povertà. Difficile menzionare un atto capace come questo di incarnare la fede assoluta, incrollabile, nel “potere” e la corrispondente sfiducia nell’individuo e nelle sue capacità.

E non può far specie allora l’idea che – come è stato autorevolmente affermato – “la narrativa neoliberista non disponga di strumenti credibili per affrontare sfide epocali come il cambiamento climatico o problemi socio-economici pressanti come l’aumento delle disuguaglianza”. Quando è vero esattamente il contrario. Proprio quando si può porre – non è detto che sempre e comunque si debba – l’esigenza di un coordinamento dei comportamenti individuali, proprio lì il pensiero liberale (che solo il provincialismo italiano distingue dal liberismo) – inteso prima di ogni altra cosa come l’unico strumento intellettuale di limitazione del “potere” di cui disponiamo – diventa essenziale per prevenire le tante distorsioni e le tante alterazioni cui il “potere” è soggetto proprio quando ne abbiamo bisogno (o immaginiamo di averne bisogno).

Ci sono stati provvedimenti di stampo liberista, dunque, nell’Italia a cavallo fra il secolo XX ed il secolo XXI? Sì, ma, al tempo stesso, non c’è stata nessuna stagione liberista. Né ieri né, forse, mai (con l’unica eccezione citata). E’ per questi motivi che è oggi vitale che il governo non ceda di un solo millimetro nel confronto sul Reddito di cittadinanza. Perché il tema in discussione non è – come alcuni pensano – quello della solidarietà ma quello della responsabilità. E’ per questi motivi che è essenziale che il governo continui ad affermare che una libera contrattazione fra le parti è sempre e comunque preferibile a un prezzo fissato per legge. Anche se si tratta di un salario. Perché il tema in discussione è quello della libertà di scelta e della difesa delle condizioni in cui essa si concretizza (e la cui radice sta in questo caso, in primo luogo, nelle tendenze della produttività). E’ per questi motivi che il governo – per quanto sia amara la medicina che la Bce ci prescrive – dovrebbe senza esitazioni schierarsi con chi l’inflazione oggi la combatte (anche se ieri ha fatto di tutto perché si materializzasse). Perché il tema in discussione è quello della legittimità democratica di una imposta che nessun Parlamento ha mai discusso e nessun elettorato ha mai votato. Perché il tema in discussione è quello della difesa dei risparmiatori e non già quello della difesa dei debitori (fra cui lo Stato stesso). E’ per questi motivi che è vitale che il governo persista in una gestione prudente delle finanze pubbliche. Perché il tema in discussione è quello della autonomia di una collettività che trova un limite nel suo indebitamento. Le battaglie culturali sono quelle più rischiose e difficili per una classe politica ma anche quelle su cui essa si misura davvero.

 

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