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il foglio del weekend

Di debito in debito. Dal record di quello mondiale agli appelli per contenerlo

Stefano Cingolani

Il deficit di tutti i paesi al mondo ha raggiunto il suo massimo storico di 92mila miliardi. L’allarme dell’Onu e le ricette per ridurlo, mentre gli stati continuano a spendere

Ogni sette anni saranno condonati tutti i debiti. Si procederà in questo modo: quando sarà stato proclamato, in onore del Signore, l’anno per il condono, chi avrà fatto un prestito ad un altro, non costringerà il suo prossimo, un suo connazionale, a rimborsare il debito (Deuteronomio, 15).

 

L’Onu ha suonato la campana a martello: il debito mondiale ha raggiunto il suo massimo storico e vale 92 mila miliardi di dollari circa, vicino al prodotto lordo che ha toccato i 102 mila miliardi. L’anno di riferimento è il 2022, quando i governi hanno preso in prestito valanghe di quattrini per contrastare crisi tra cui la pandemia, mettendo a nudo vulnerabilità pesanti per i paesi in via di sviluppo. Da allora non c’è stata nessuna inversione di marcia, nessun ritorno a una “normalità” che sembra abbandonata per sempre. Il debito interno ed estero in tutto il mondo è aumentato di oltre cinque volte negli ultimi due decenni, superando il tasso di crescita dell’economia, perché il prodotto lordo mondiale è solo triplicato dal 2002, secondo il rapporto delle Nazioni Unite “Un mondo di debiti. Un fardello crescente per la prosperità globale”. Il paradosso è che la torta è andata ai più ricchi dell’occidente e agli arricchiti come la Cina. Gli Stati Uniti sono primi in cifra assoluta con quasi 30 mila miliardi di dollari, secondo arriva il Giappone che sfiora i 23 mila, seguito dalla Cina (12.600 miliardi). In Europa numero uno è la Francia, poi la Gran Bretagna, l’Italia e la Germania. Ma attenti a parlar male del debito. Quello italiano ha superato i 2.800 miliardi di euro. Per contrastare la pandemia da Covid-19, i governi hanno aggiunto 350 miliardi, i contribuenti non hanno pagato le tasse, famiglie e imprese hanno ricevuto sussidi, bonus, cassa integrazione, prima contro il virus poi contro il caro bollette. E l’economia è cresciuta più che in altri paesi. La prudente Germania è in recessione, alla fine il cancelliere Scholz ha detto che lui è “liberale, ma non stupido” e ha cominciato a spendere e spandere. Non tutto va bene, madama la marchesa, perché a fronte di quei 350 miliardi in più presi in prestito, tra il 2019 e il 2022 il pil italiano è aumentato di 222 miliardi, arrivando a 1.909 miliardi. Il gran rimbalzo è stato un buon recupero, non ha ancora aperto la strada a una crescita stabile. Incrociamo le dita, ma è arrivato il momento di porsi la domanda che nessuno vuol sentire: il debito conta davvero? E fino a che punto dobbiamo preoccuparci?

 

Secondo i puristi, il parametro di Maastricht che più ci tormenta dalla nascita dell’euro, cioè il debito dello stato diviso il prodotto lordo, è scorretto perché mette nel numeratore un stock (cioè tutto quello che si è accumulato nella storia) e nel denominatore un flusso (cioè quel che si produce in un solo anno). Bisognerebbe paragonare il costo del debito alla crescita del pil per capire se chi prende in prestito è solvibile. Così facendo, l’Italia verrebbe collocata tra i virtuosi (forse ancora per poco), ma interi paesi sono già con l’acqua alla gola in Africa, in Asia, in America Latina, ora che gli interessi aumentano. I debiti più pericolosi sono quelli contratti con banche, fondi, investitori esteri che non sentono ragioni, però anche in Giappone, dove il circuito creditizio è solo nazionale, ci si chiede quando il giocattolo si romperà. 

 

Le ricette abbondano, proviamo a condensarle in alcune scuole di pensiero. La teoria ortodossa dice: ridurre le spese, aumentare le tasse, pareggiare il bilancio. La teoria dello sgocciolamento (trickle-down in inglese) punta ad aumentare le spese, ridurre le tasse, accrescere la ricchezza privata lasciando che coli giù in una cascata dal vertice alla base, come lo champagne nelle piramidi di bicchieri durante i banchetti nuziali. Nel 2020 gli economisti americani Lawrence Summers e Jason Furman hanno dato il via libera agli stati per indebitarsi finché i pagamenti di interessi sul debito restano inferiori alla media. Il  keynesismo è tornato alla grande. Mario Draghi, con il suo apologo del “debito buono”, ha sdoganato i prestiti di stato “quando si danno risorse a una società, in modo che questa riesca a fare riforme tali da diventare autonoma e volare con le proprie ali”. Tuttavia in Italia negli ultimi anni il tasso medio di interessi sul debito pubblico è stato superiore al tasso di crescita, il che solleva qualche dubbio sul paradigma draghiamo. Una posizione più radicale sostiene che lo stock accumulato non verrà mai ridotto e, semmai si giungesse al punto di non ritorno, ci sarebbe la remissione dei debiti, più o meno costosa, ma comunque salutare. Teoria modernissima basata in definitiva sulla Bibbia. E’ stata applicata in Grecia e ha funzionato. La odiatissima trojka ha tassato e tartassato, ma adesso la repubblica ellenica ha meno debiti dell’Italia (in rapporto al pil), è tornata a crescere, ha superato la pandemia e cinesi, russi, americani la tirano per la giacchetta sia pure in direzioni opposte. E guardate l’America, dicono i negazionisti finanziari: quando venne fondata la Repubblica il nuovo governo federale si fece carico dei debiti degli stati e via andare. E’ il cosiddetto effetto Hamilton perché fu il primo segretario al Tesoro Alexander Hamilton a prendere una decisione del resto inevitabile quando nasce una nuova repubblica. Anche il nuovo Regno d’Italia assorbì i debiti dei singoli stati, i neoborbonici dicono perché quello del Piemonte era ben superiore a quello del Regno di Napoli, ma chi aveva pagato le guerre d’indipendenza? 

 

Gli Stati Uniti, in realtà, fin dalla loro nascita sono stati dominati da una “etica anti-debito”. L’orologio del debito ticchetta a Times Square nel cuore della Grande Mela che non smette mai di indebitarsi. Thomas Jefferson, quando fu eletto presidente, promise di pagare una parte sostanziosa dei debiti rivoluzionari e lo fece. Abraham Lincoln diceva che il debito pubblico è un sistema rovinoso. Eppure nel lungo periodo non è stato ascoltato. Prima della pandemia gli Usa avevano una situazione economica ideale con bassa disoccupazione, inflazione e tassi d’interesse al minimo e potevano godere del più lungo periodo di espansione della loro storia, con un disavanzo pubblico pari a mille miliardi di dollari e un debito da 20 mila miliardi. Nel 1989 Jonathan Rauch scrisse su The Atlantic un lungo articolo intitolato “Il deficit pubblico è davvero così male?”. Allora il debito era arrivato a 2.850 miliardi e il buco nel bilancio federale oscillava ogni anno tra i 150 e i 200 miliardi. Insomma, il giorno del giudizio non è poi così vicino.

 

Lo storico britannico Niall Ferguson che insegna a Harvard, quindi a Cambridge nel Massachusetts, mette in guardia da facili ottimismi: il dissesto delle finanze ha sempre messo in ginocchio le grandi potenze, la Spagna nel ’600, la Francia nel ’700 e la Gran Bretagna nel ’900. L’America è un’eccezione, ribatte il partito dell’anti-debito, può stampare tutti i dollari che vuole, detiene un potere unico, quello che il generale de Gaulle chiamava il signoraggio del dollaro. Ma anche per lei la storia pone dei limiti. Gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno studiato 44 paesi nel corso degli ultimi due secoli mostrando che gli stati possono fallire e il momento della verità arriva in media quando il debito pubblico supera il 90 per cento del pil. Una soglia che altri studiosi hanno messo in discussione. Legarsi a una soglia specifica è una semplificazione, tuttavia la sostanza della loro ricerca certosina non cambia: i debiti massicci sono comunque un problema serio. E’ vero che esplosioni improvvise stile Grecia sono poche nella storia dei paesi occidentali, ma il rischio è l’indebolimento progressivo del potenziale economico del paese. J. H. Cullum Clark, che dirige il George W. Bush Center of Economic Growth, fa l’esempio dell’Italia che tra il 1950 e il 1970 ha realizzato un vero miracolo economico con le finanze pubbliche in ordine, poi è diventata super indebitata e dal 1990 in poi ha segnato un record negativo nella crescita, negli investimenti, nell’istruzione. 

 

In compenso, i debiti privati degli italiani sono inferiori a quelli di altri paesi industrializzati, compresi i frugali del nord Europa. Per le famiglie siamo al 43 per cento del pil e per le imprese il 68 per cento. Indovinate chi si piazza al primo posto? I Paesi Bassi, sì, proprio, le formiche olandesi che non la smettono di bacchettare le cicale italiane. Vizi privati pubbliche virtù tra i protestanti, mentre nel mondo cattolico è vero il contrario? 

Se il problema riguarda il potenziale produttivo, allora il macigno pubblico pesa nelle tasche dei privati e il tentativo di mettersi al riparo non pagando le tasse è illusorio. Il reddito pro capite, quindi il benessere privato, dipende infatti direttamente dalla crescita del prodotto. Negli ultimi vent’anni la stagnazione ha ridotto il tenore di vita medio degli italiani. E in Giappone è successo qualcosa del genere. Non è solo il debito a frenare la crescita, ci sono fattori demografici e istituzionali, tuttavia quel fardello rende più difficile affrontarli e schiaccia a terra il paese ogni volta che tenta di rialzarsi.

 

Si è diffusa in questi tempi un’altra equazione à la page: più debito pubblico più crescita. E’ nata a sinistra, è stata acchiappata al volo dalla destra. Tra Mariana Mazzucato e Giorgia Meloni c’è un abisso in tutto tranne che sul neo statalismo, chiamasi stato innovatore, investitore, programmatore, progettista, e via via aggettivando, sempre di stato si tratta. Il guaio per i liberisti è che a guidare la retromarcia è la patria del capitalismo privato. Dopo aver presentato un piano di sostegno all’economia da 1.860 miliardi di dollari (pari a quasi il 9 per cento del pil americano), Joe Biden ha annunciato un secondo programma da tremila miliardi. Tanto che, secondo il Congressional Budget Office, potrebbe innescare un percorso che farà passare il rapporto tra debito e pil dal 100 al 200 per cento di qui al 2050. Gli europei sono ormai sulla stessa strada. Prendiamo “l’agenda verde”: negli Usa l’auto elettrica gode di incentivi pubblici pari a 7.500 dollari, nella Ue siamo a seimila euro, non molto meno. E’ cominciata una “guerra globale per i sussidi” secondo il Financial Times. Per gli americani si tratta di re-industrializzare aree che una globalizzazione troppo spinta ha desertificato, per gli europei è una concorrenza sleale, per i cinesi una dichiarazione di guerra economica. E chi paga? Le generazioni future, come si dice comunemente. Finora non è successo. I baby boomer non hanno pagato, si sono indebitati ancora di più. Lo stesso hanno fatto la Generazione X, i Millennial, la Generazione Z che cerca ancora una via nel mondo e non ha soldi per saldare i conti. E allora? Ecco il nuovo tarlo che corrode la già solida quercia dell’ortodossia economica.

 

Al dilemma del debito s’aggiunge quello dell’inflazione, due fenomeni simbiotici. L’iper inflazione post bellica ha abbattuto i debiti di guerra, ma così non è accaduto negli anni 70 del secolo scorso perché, per fermare il prezzo del petrolio e i salari, vennero fatti volare i tassi d’interesse, andò alle stelle anche il costo del denaro, arrivò quel colloso pasticcio di inflazione e stagnazione. Oggi abbiamo alti debiti e alti prezzi, però non siamo a questo punto, non ancora. Il costo della vita s’aggira in media attorno al 5 per cento nei paesi dell’euro, il titolo di stato a dieci anni (punto di riferimento per il mercato) è attorno al 4 in Italia, quindi conviene prendere i soldi in prestito, ma per quanto tempo? Se è vero che l’inflazione rosicchia il valore nominale dei debiti pubblici e privati, è altrettanto sicuro che si mangia anche i risparmi. Con una mano dà con l’altra toglie, i mutui a tasso variabile sono diventati un’emergenza e s’intravede già l’arrivo di altri sussidi che andranno ad aggravare i conti pubblici. Negli States soffrono le banche che hanno banchettato quando il denaro non costava nulla e non sono state rapide ad adeguarsi. I salari non riescono a recuperare il terreno perduto nemmeno dove salgono più che in Italia, mentre chi si è illuso che almeno si gonfiano i profitti viene smentito: i pezzi corrono troppo veloci. A quel punto non resta che ridurre la domanda, la crescita diventa recessione, la bolla si sgonfia.

 

E’ lo schema classico, ma funziona ancora? Se lo chiede Paul Krugman e pubblica su Twitter i grafici ufficiali: mostrano una continua crescita dei posti di lavoro e un pil che non si ferma, il che contraddice i libri di testo. E’ vero anche in Italia. L’Istat continua a calcolare un aumento dell’occupazione, per lo più stabile. Secondo una scuola di pensiero è solo questione di tempo, la stretta monetaria può impiegare sei mesi prima di diventare stretta dell’economia reale. Ma Krugman controbatte: la Federal Reserve sta aumentando i tassi dal marzo 2022, la Bce ormai da un anno e la inversione a U non c’è ancora stata. Il premio Nobel introduce il dubbio metodico: e se fossimo davanti a un cambio di paradigma? In tal caso, gli attrezzi del passato con i quali continuiamo a riempire la cassetta non funzionano: debito, inflazione, occupazione, crescita vanno guardati con nuove lenti. Ignazio Visco governatore uscente della Banca d’Italia e il suo successore già nominato Fabio Panetta guidano la fronda: la recessione non è la sola via, combattere un male provocandone un altro sembra la legge del taglione. La riforma del patto di stabilità è un’occasione perduta: non sono valse né la crisi finanziaria del 2008-2010, né la pandemia del 2020-2021, né la guerra del 2022-2023, l’intelletto burocratico sembra impermeabile alla storia. Che altro ci vorrà per non inginocchiarsi più davanti a totem e tabù ai quali sono stati assegnati persino dei numeri esoterici: 2 per cento per l’inflazione, 3 per cento per il deficit pubblico, 60 per cento per il debito sul prodotto lordo. Nella Smorfia due è ‘a piccerella, tre la gatta, sessanta il lamento. A Napoli i cultori del genere potrebbero dire che corrispondono, ma non valgono un terno al lotto.

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