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La buona battaglia di Giorgetti sul controllo dei conti pubblici

Oscar Giannino

Quello del ministro dell'Economia è un compito difficile e malvisto in primis dai partiti della sua maggioranza, ma mettere un freno alla spesa improduttiva è una necessità da perseguire. Auguri

La buona impressione che il governo suscitò nei suoi primi mesi a Bruxelles e sui mercati è stata dovuta alla legge di Bilancio scritta in tempi stretti, a misure come la stretta sui bonus edilizi follemente concessi dal governo Conte, all’avvio del phasing out dei sussidi energetici e, infine, al Def che confermava un quadro di responsabilità sui conti pubblici. Protagonisti e vigili guardiani di questo impulso costante alla prudenza sono il Mef, a cominciare dalla Ragioneria generale, e il ministro Giancarlo Giorgetti. Che merita solidarietà: il compito che svolge suscita malumore e incomprensione in primis nei partiti della sua maggioranza. 

Ieri il Corriere della sera ha annunciato che il ministro ha iniziato a fissare una serie di incontri coi suoi colleghi per chiedere impegni di revisione della spesa primaria di competenza. E’ un’ottima iniziativa, più che giustificata dai numeri della finanza pubblica, e dalle stesse parole che Giorgetti aveva scandito pronunciato presentando alle Camere il Def lo scorso 20 aprile. “Il quadro programmatico di finanza pubblica contenuto in questo documento – disse – si regge su una attenzione che deve essere costante. Sebbene la legge di contabilità già preveda la quantificazione degli effetti di ogni misura assunta sui tre saldi di riferimento, occorrerà porre la massima attenzione nella quantificazione dei relativi effetti finanziari e nella definizione delle relative coperture non solo con riferimento al saldo netto del bilancio dello Stato e all’indebitamento netto, ma anche al fabbisogno della Pa”. La preoccupazione  si è purtroppo già avverata. Nei primi sei mesi del 2023 il fabbisogno di cassa  è salito verso quota 95 miliardi di euro, nel 2022 era di 42,8 miliardi e il deficit 2022 si chiuse al 5,6 per cento (prima di crescere ulteriormente per effetto del computo dei bonus edilizi). L’obiettivo di riduzione del deficit del 2023 al 4,5 per cento  è seriamente messo in forse da un fabbisogno di cassa  raddoppiato. I ritardi d’incasso sulle rate del Pnrr – la terza prevista a febbraio arriverà forse  entro poche settimane, la quarta prevista per giugno con ogni probabilità non la vedremo che a 2024 inoltrato – non aiutano di certo. Come non aiutano le continue promesse dei partiti di maggioranza: dai prepensionamenti a meno tasse con la delega fiscale (non è un caso che il Mef abbia smontato  la cosiddetta falsa “flat tax incrementale” sui redditi dei lavoratori dipendenti, cara a Salvini); dalla prosecuzione e anzi dall’ampliamento della decontribuzione fino a 7 punti per i lavoratori dipendenti, disposta dal governo fino a dicembre, alle richieste delle regioni sulla sanità, e via continuando. 

Il percorso indicato dal Def ha sempre visto nei partiti di maggioranza lo stesso interesse riservato a una mera esercitazione di facciata. Fatto sta che gli obiettivi programmatici erano di un indebitamento netto  che scendeva dal 4,5 per cento (oggi a rischio) del 2023 al 3,7  nel 2024, fino al 2,5 nel 2026. Con una riduzione del debito pubblico dal 144 per cento  al 140,4 nel 2026, grazie al miglioramento dell’avanzo primario, portandolo da -0,6 a +2 per cento, cioè nel totale dei 3 anni con oltre 45 miliardi tra minori spese o maggiori entrate. E’ vero che in questo 2023 l’Italia sta crescendo un po’ più degli altri grandi paesi Ue, e che l’inflazione persistente dovrebbe accrescere le entrate per la componente nominale, ma è singolare che le imposte indirette nei primi sei mesi siano scese, non aumentate. Sarà dunque ancora una volta difficile, per Giorgetti, preparare i suoi colleghi alla necessità di mettere un freno alla spesa improduttiva. Tuttavia ha diverse frecce al suo arco. Non solo quelle ovvie, cioè non farsi cogliere impreparati dal nuovo patto di stabilità europeo, che ancora aspetta la sua definizione finale, ma in ogni caso entra in vigore a inizio 2024. Ma soprattutto perché, se la destra ci tiene a imprimere un’orma consistente per una crescita più sostenuta, occorre rimodulare la spesa a favore delle componenti strutturali della crescita. 

L’ultimo rapporto annuale dell’Istat indica con precisione come fare: una spesa più rivolta ai giovani e meno ai prepensionati, l’adozione di meccanismi strutturali e non a tempo di incentivazione degli investimenti delle imprese. Che, nell’incertezza odierna, stanno di nuovo frenando, e senza di cui non c’è né maggior crescita né un’occupazione che continui a salire come avvenuto sinora. Auguri dunque a Giorgetti: per questa buona battaglia, se li merita.

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