(foto Ansa)

Tutti contro Elkann

Meloni e l'ingresso dello stato in Stellantis. Cosa c'è di giusto e cosa di nazional-populista

Stefano Cingolani

Difesa dell’automotive nazionale o vendetta per la “fuga all’estero” della Fiat? Indagine sulla nuova puntata dello scontro stato-capitale

L’assedio dura da tempo, ma non è mai stato così pressante. Nel mirino c’è Stellantis, non si sfugge però alla convinzione che il “bersaglio grosso” sia il suo azionista di riferimento, John Elkann. Il governo, a cominciare da Adolfo Urso ministro del Made in Italy; poi personalità di spicco nel mondo Fiat degli ultimi decenni come Luca di Montezemolo; analisti dell’industria, consulenti internazionali, insomma un ventaglio poche volte tanto vasto e diverso, critica le strategie del gruppo automobilistico. I più protestano perché la Francia ha un ruolo privilegiato, grazie alla presenza dello stato nel capitale, sostengono che all’Italia sono rimasti solo gli strapuntini prima di essere abbandonata del tutto, lamentano che i quattrini dei contribuenti sono finiti all’estero, a Londra dove si riscuotono i profitti e ad Amsterdam dove si possono utilizzare le azioni privilegiate per comandare tanto spendendo poco.

“Un’altra Fiat fuori di qui” era il progetto dell’ingegner Vicini, il manager ideato da Carlo Fruttero e Franco Lucentini per il loro romanzo “A che punto è la notte”, pubblicato nel lontanissimo 1979. Ma nemmeno i due brillanti scrittori torinesi avrebbero potuto immaginare in che modo la Fiat è stata portata “fuori”. Verità e propaganda si mescolano a rimpianti, rancori, rimorsi per quel che poteva essere e non è stato nei primi vent’anni di questo secolo in cui la Fiat è morta, è risorta e se ne è andata altrove. Alcuni vedono in Elkann l’ultimo esponente del complotto pluto-giudaico-massonico, una sorta di nuovo Soros, colui che speculò contro la lira nel 1992, stappò champagne per il crollo della Prima Repubblica e alimentò il grande golpe contro Silvio Berlusconi. Questo loop nazional-populista cita a proprio sostegno Repubblica che il giorno dei funerali di stato a Berlusconi ha titolato in prima pagina: “Meloni, lutto e potere”. E’ solo l’ultimo colpo in un fuoco di fila diventato più aspro con la caduta del governo Draghi. Prendiamo alcuni titoloni fra i più recenti: “Un lutto per dividere”, “Meloni occupa i tg”, “Tunisi, schiaffo alla Ue”… e via via senza sfumature. Anche chi vuol mantenere i nervi saldi e la testa sulle spalle, resta colpito dall’asprezza dello scontro e si chiede che cosa ci sia sotto.


Elkann a capo di una opposizione politica, contro una “deriva protezionistica e autoritaria”, per impedire un “orbanismo” italico?


Elkann a capo di una opposizione politica e fautore di una battaglia culturale, contro una “deriva protezionistica e autoritaria”, per impedire un “orbanismo” italico? E’ quel che ogni giorno si legge sia sulla Repubblica sia sulla Stampa, è quel che scrivono i rispettivi direttori, Maurizio Molinari e Massimo Giannini. Due mondi a confronto, quello liberal-democratico e cosmopolita contro quello sovranista e autoritario. C’è pure una spiegazione molto concreta: Stellantis è il primo gruppo industriale italiano con 86 mila dipendenti (più delle Ferrovie o di Tim) in sei stabilimenti; ha un capitale di circa 120 miliardi di euro secondo solo all’Enel, azienda pubblica, due volte e mezzo Essilor Luxottica (italo-francese). Il governo cerca alleati altrove per portare capitali e capitalisti in grado di ridimensionare l’odiato asse francese. Il viaggio a Roma giovedì scorso di Elon Musk, che a bordo di una delle sue Tesla s’è recato alla Farnesina da Antonio Tajani, poi a palazzo Chigi da Giorgia Meloni, fa sognare. Siamo insomma alle ultime stoccate in ordine di tempo nel duello secolare ingaggiato tra il più rilevante potere economico italiano e il potere politico, una puntata dell’eterna competizione tra stato e capitale.

 

Si racconta che Giovanni Agnelli non possedesse una camicia nera; aveva sempre proibito di comprarne e quando Benito Mussolini decise di festeggiare nella riluttante Torino, anzi proprio alla Fiat, il decimo anniversario della marcia su Roma, chiese al maggiordomo di far tingere una delle sue camicie bianche. Nel 1939 il Duce inaugurò Mirafiori, il più grande stabilimento europeo, in una terribile giornata di pioggia di fronte a una piccola folla annoiata (fu una vera catastrofe comunicativa). Solo il figlio Edoardo indossava l’orbace, il vecchio Senatore si presentò in divisa da ufficiale della cavalleria dei Savoia. Se la Fiat era “uno stato nello stato”, così la chiamarono all’unisono Antonio Gramsci e lo stesso Mussolini, allora il fondatore della dinastia volle mostrarsi come soldato del Regno d’Italia, fedele alla corona e soltanto a quella. Oggi che la Fiat non c’è più, assorbita nel gruppo multinazionale Stellantis, ora che il capo famiglia non si chiama Agnelli, ma John Elkann, ebbene anche adesso sembra impossibile accettare che l’antico principato del capitalismo italiano non voglia ancora farla da padrone. 

 

Agnelli senior morì il 15 dicembre 1945 a guerra appena finita, con la Fiat in mano ai consigli di gestione guidati dai comunisti e il plenipotenziario Vittorio Valletta (che si era iscritto lui sì al Partito nazionale fascista) epurato. Il Professore, così veniva chiamato, venne salvato grazie all’appoggio degli americani con i quali aveva stretto buone relazioni ancor prima dal 1943, ma decisivo fu il leader comunista Palmiro Togliatti consapevole che i “soviet operai” all’italiana non sarebbero mai stati in grado di gestire il maggiore gruppo manifatturiero che spaziava su “cielo, terra e mare”. Da quel momento in poi Valletta stesso ha giocato un ruolo molto importante sullo scacchiere politico. Amico personale di Giuseppe Saragat il quale, uscito dal partito socialista, aveva fondato il Psdi di chiara ispirazione a stelle e strisce, stimava Amintore Fanfani che se ne approfittava chiedendo agli Agnelli di non attaccarlo con i loro giornali. Appoggiò la nazionalizzazione dell’energia elettrica contro la potente lobby finanziario-industriale che comandava a Milano, sostenne l’apertura a sinistra e l’alleanza della Dc con il Psi, grazie ai suoi rapporti oltre Atlantico ottenne l’appoggio della Casa Bianca per aprire una fabbrica in Unione sovietica a Togliattigrad. Politica estera, dunque, non solo interna. Quando nel 1966 Gianni Agnelli detto l’Avvocato prese il comando, lanciò una sorta di kennedysmo apprezzato a sinistra anche se lui si dichiarava vicino al partito repubblicano. Poi come presidente della Confindustria, stipulò con i sindacati l’accordo sulla scala mobile, il “patto Lama-Agnelli”. La Fiat forte (a metà anni ‘80 era la numero due in Europa testa a testa con la Volkswagen) duellò con ogni uomo forte sulla scena politica italiana, in particolare con Bettino Craxi il quale usava bastone e carota, ripagato con gli stessi mezzi. 


L’impresa sull’orlo dell’abisso  all’inizio dei Duemila è stata tenuta a galla da una cordata di banche. Poi la rinascita multinazionale


 

I giornali sono sempre stati il veicolo principale di questo rapporto tanto stretto quanto difficile. Non la Stampa, quotidiano di famiglia, tenuto a bordo del ring, ma soprattutto il Corriere della Sera nel quale Agnelli era entrato per la seconda volta dopo il crac Rizzoli e lo scandalo della P2. Il copione si ripete oggi che, usciti dal Corsera, gli eredi Agnelli posseggono Repubblica e la Stampa. Sono finiti i tempi in cui persino il cambio al vertice in via Solferino veniva annunciato in anteprima ai capi politici come avvenne tra Gianni Agnelli e Craxi – lo racconta Massimo Pini nella sua biografia del leader socialista scritta da un amico con lo spirito dello storico – in quel 1992 in cui crollava tutto, dalla lira al sistema politico sotto Tangentopoli, e vacillava la stessa Fiat. “La festa è finita” aveva sentenziato già un anno prima l’Avvocato, facile profeta. La mano pesante di Antonio Di Pietro si fece leggera con Agnelli e il cireneo Cesare Romiti prese sulle sue spalle la croce, venne condannato, poi assolto. “Anche noi abbiamo dovuto pagare i partiti, era un sistema inquinato”, dichiarerà nel memoriale consegnato ai magistrati. La Fiat finisce sull’orlo dell’abisso quando muoiono, a distanza di un anno l’uno dall’altro, Gianni e il fratello Umberto rispettivamente nel 2003 e nel 2004. L’impresa di sistema verrà tenuta a galla da una cordata di banche finché la famiglia trova l’accordo sulla successione a favore di John, Lapo e Ginevra, i tre figli di Alain Elkann e Margherita Agnelli, secondogenita dell’Avvocato. Un patto messo poi in discussione dalla stessa Margherita. 

 

La Fiat rinasce grazie a un colpo d’ala imprenditoriale e alla guida ardita di Sergio Marchionne. In fondo è lui che, sistemati i conti, lanciati modelli di successo (la Grande Punto, la nuova 500) coglie l’occasione per fondare davvero “una Fiat fuori di qui”, grazie all’ingresso nella Chrysler nel 2009. Nessuno ha saputo davvero spiegare cosa è successo dietro le quinte, nemmeno Steven Rattner lo “zar dell’auto” incaricato di salvare le Big Three, che ha gestito l’operazione. La grande crisi finanziaria ha offerto il destro, Barack Obama ha dato il via libera, secondo alcuni ha aiutato il rapporto che avevano con Henry Kissinger sia gli Agnelli sia il presidente americano. E non è certo da trascurare il passaporto di Marchionne figlio di un carabiniere abruzzese emigrato negli States. In ogni caso, il gruppo italiano diventa per la prima volta multinazionale, imbocca quella strada che lo porterà poi alla fusione con Psa (Peugeot-Citroën-Opel), mentre Exor, la holding guidata da Elkann prende le vie del nord Europa. E comincia il tiro incrociato: è una fuga con la cassa, una scelta ingenerosa dopo tutto quello che i contribuenti italiani hanno dato. Lo stesso Cesare Romiti ha ammesso di aver guidato “un’industria assistita”, anche se “non c’erano alternative e così fan tutti”.

 

Quanto ha ottenuto la Fiat dallo stato italiano? Cassa per il Mezzogiorno, contratti di programma, rottamazione, cassa integrazione, ricerca applicata, senza contare il protezionismo che fino agli anni ‘90 ha pesato sull’importazione di auto estere, in particolare giapponesi: la panoplia di leggi e provvedimenti, anche solo negli ultimi trent’anni, è enorme. Sono girate le cifre più diverse, la più grande è pari a circa cento miliardi di euro dal 1975; un gruppo di economisti stima mezzo miliardo l’anno dal decennio ‘80 al crac del 2002. E’ stato un “negoziato permanente” sostiene l’economista Giulio Sapelli. Secondo stime europee la Fiat ha preso meno della Renault che è un’industria pubblica, ma più della Peugeot e della Volkswagen. Negli anni ‘90, nonostante il ridimensionamento degli aiuti di stato deciso da Bruxelles, l’Italia ha distribuito al settore automobilistico tre miliardi 353 milioni di ecu (unità di conto europea), la Germania un miliardo e 140 milioni, la Francia appena 173 milioni. Ma la quota di mercato dell’auto italiana, ormai solo Fiat, è scesa dal 53,6 del 1978 al 34,7 del 2001, a favore delle auto tedesche e giapponesi. Se l’obiettivo era difendere l’industria nazionale, allora è stato mancato in pieno e l’idea di ripetere la stessa strategia è destinata a fare un’identica fine. Per la pandemia il gruppo Stellantis ha ricevuto 6,3 miliardi di euro restituiti con un anno di anticipo. Oggi non ha bisogno di aiuti pubblici: “Gli Stati entrano nelle imprese quando vanno male e Stellantis va molto bene”, ha dichiarato Elkann. Ma allora che ci fa lo stato francese? E perché l’amministratore delegato Carlos Tavares sollecita sostegni alla transizione elettrica? 


“Gli stati entrano nelle imprese quando vanno male e Stellantis va molto bene”, ha dichiarato Elkann. Ma allora che ci fa lo stato francese?


 

Luca di Montezemolo non ha dubbi: “Stellantis è un gruppo francese. Le decisioni vengono prese a Parigi, dove si sono recati i sindacati italiani per chiedere investimenti, da manager che non sono certo italiani. Nell’auto, di italiano non resta granché, solo Ferrari. La Lamborghini è ormai da tempo parte del gruppo Volkswagen-Porsche”. Ancora nel 2016 le vetture costruite sul suolo nazionale erano un milione e 200 mila, adesso sono 437 mila, nel frattempo la Spagna è diventata il secondo produttore europeo dopo la Germania. Il governo, dunque, dovrebbe predisporre “un ambizioso piano industriale per il settore automotive”, sostiene Montezemolo. La tutela di tutta la filiera, uno degli elementi di forza dell’intera economia, deve essere una priorità oltre a quella del rinnovo del parco circolante. Secondo Fulvio Coltorti l’economista che ha creato l’ufficio studi della Mediobanca sotto la guida di Enrico Cuccia, tra Fiat-Chrysler e Peugeot-Citroen s’è consumato un matrimonio tra partner deboli, non solo uno scambio ineguale. La Fca valeva di più, ma nel distribuire le quote azionarie è prevalso un bilancino politico non finanziario. Exor è il primo socio con il 14,4 per cento però è chiuso in una tenaglia tra la famiglia Peugeot con il 7,2 per cento che può salire fino all’8,5 per cento, lo stato francese con il 6,2 per cento, i cinesi della Dongfeng con il 3,3 per cento. In consiglio di amministrazione su undici membri, sei fanno capo a Psa tra i quali l’amministratore delegato Tavares e cinque a Fca tra i quali Elkann presidente con poteri esecutivi. Il vice, Robert Peugeot non ha poteri effettivi. Per sette anni nulla cambia, dunque restano altri tre anni e mezzo, dopo i quali si vedrà. Il Copasir aveva sollevato una questione di interesse nazionale, calcolando che il blocco francese è di fatto più forte di quello italiano. Il comitato parlamentare allora era presieduto da Adolfo Urso.

 

Ma quanto è davvero forte il gruppo Stellantis? Coltorti ha calcolato, in un lavoro per la Università Cattolica di Milano dove insegna, che il 42 per cento del capitale investito è composto di attivi intangibili, il 48,4 per cento da attivi finanziari e solo il 10 per cento produttivi. Uno squilibrio evidente anche rispetto a gruppi come Eni, Enel, Prysmian e la media delle imprese industriali italiane. Senza entrare in dettagli tecnici, intangibili o immateriali vengono classificate attività varie, costi da spalmare su più anni, diritti, brevetti, concessioni, licenze, marchi, spese di avviamento, che sono soggette a svalutazioni e rivalutazioni molto incerte. Sono “capitali improduttivi” secondo Coltorti. Vuoi vedere che Stellantis è un colosso dai piedi d’argilla? 

 

Evitando accuratamente di sfiorare la singolar tenzone Meloni-Elkann, Josef Nierling amministratore delegato in Italia di Porsche consulting, la società di consulenza che fa capo al gruppo tedesco, pensa che il ministro Urso abbia ragione: la produzione italiana deve aumentare. “L’automobile è lo specchio della grande transizione industriale”, spiega al Foglio. Altro che settore in declino, è ancora una volta un volano: dalle centraline elettroniche alle batterie e ai semiconduttori, dai nuovi materiali alle infrastrutture elettriche e digitali, “l’industria che ha cambiato il mondo”, come l’ha definita il Massachusetts Institute of Technology, resta protagonista di primo piano. “I grandi gruppi hanno compiuto una scelta strategica a favore dell’auto elettrica, non è più possibile attendere né rallentare, occorre mettersi al passo”, sottolinea Nierling. Ma per favorire la riconversione della filiera italiana e attirare investimenti occorre una produzione più consistente. 


Nierling, ad in Italia di Porsche consulting, pensa che il ministro Urso abbia ragione: la produzione italiana deve aumentare


“In fondo è stato grazie alla Fiat e a un settore automobilistico rilevante se in Italia è stata costruita una componentistica importante anche in Germania e in Europa. Senza rafforzare la catena produttiva si perdono le competenze e diventa più difficile attirare gli investimenti”. C’è il timore, espresso dallo stesso Urso a Venezia nell’evento del Foglio dedicato all’innovazione, che i grandi colossi inglobino direttamente i produttori di componenti, soprattutto elettronica, con un colpo che sarebbe micidiale per l’intera filiera. E i grandi ormai sono tutti stranieri. Si dice che un’auto elettrica impieghi molti meno pezzi rispetto a una meccanica; è vero, ma si trascura il fatto che in una delle nuove vetture ci sono dai cinquemila agli ottomila chip. Ecco, quindi, che la riconversione dell’auto fa da volano anche all’industria dei semiconduttori. C’è un’impresa importante come la STM, azienda pubblica, joint venture paritetica italo-francese, che funziona molto bene. Resta però il fatto che se l’Italia non produce di più si riduce l’incentivo a investire nell’insieme dell’automotive plasmata dalla nuova rivoluzione industriale.

 

Ma come fare? Il governo Meloni non ha intenzione di mollare la presa, tuttavia si può pressare Stellantis per costringere Tavares ad espandersi in Italia? Fino a che punto è possibile spingersi senza innescare un effetto boomerang? L’ingresso dello stato italiano, magari attraverso la Cassa depositi e prestiti, è un obiettivo annunciato da Fratelli d’Italia e accarezzato anche dalla Lega prima di vincere le elezioni e andare al governo. Un’idea che è stata respinta da Elkann in modo netto anche recentemente, vantando che Stellantis è un gruppo privato. Quanto allo stato francese, la sua presenza viene considerata da Exor un residuo del passato, di quando ha aiutato la Peugeot a superare la sua crisi dieci anni fa. In Francia gli aiuti di stato hanno come corrispettivo l’ingresso nel capitale, l’Italia in questo si è dimostrata più liberale, tuttavia ciò non vuol dire che non intenda vigilare sull’uso dei soldi pubblici vincolandoli a un aumento dell’attività industriale, a cominciare dall’occupazione. Il governo ha lanciato finora messaggi contraddittori e confusi sulla sua strategia per l’auto. “Temo che questa insicurezza che aleggia nell’aria possa nuocere alle aziende italiane”, dice Nierling. Montezemolo suggerisce di attirare alcuni dei grandi produttori europei e internazionali. L’accorciamento della catena globale può aiutare. E più che guardare alle auto da assemblare, occorre considerare l’intera filiera. La Auto Valley emiliana sta diventando una Electric Valley. La Ferrari va alla grande (in borsa non in Formula uno), ma deve diventare protagonista del nuovo mondo digitale. Elon Musk che costruisce una gigafactory in Germania, potrebbe essere attirato dal Bel Paese. In fondo, è stato aiutato da Elkann nel 2018 quando la Tesla stava lì lì per fallire. Ci vuole immaginazione, coraggio e mente aperta. Rivalse contro Elkann, vendette verso “la fuga” della Fiat, campagne xenofobe e nazional-populiste, tutta questa paccottiglia fa solo del male. Non è meglio far spallucce ai titoloni di Repubblica e pensare alla Nazione?

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