Luigi Sbarra (LaPresse)

L'intervento

Produttività e grandezza delle imprese. Tabù da affrontare per la crescita

Luigi Sbarra

“Non c’è nessuna apocalisse alle porte dell’economia italiana, niente allarmismo sui contratti a tempo determinato. La partecipazione darà delle risposte importanti ai lavoratori e al paese”, scrive il segretario generale della Cisl

È un’analisi corretta e apprezzabile quella proposta da Dario Di Vico sul Foglio di venerdì scorso. Per fortuna non c’è nessuna apocalisse alle porte dell’economia italiana. I dati Istat hanno confermato la tendenza alla crescita dell’occupazione e, in particolare, di quella stabile. Stime che trovano pari corrispondenza in quelle relative all’andamento dell’economia nazionale. È evidente che i due dati si sostengano a vicenda: un buon andamento economico generale è determinante nella crescita dei posti di lavoro e anche nel ristabilire da parte degli imprenditori la fiducia necessaria a impegnarsi con i nuovi assunti a tempo indeterminato. Allo stesso modo, maggiori opportunità di lavoro stabile incoraggiano la spesa, i consumi e anche qualche possibile investimento, come la casa, attualmente frenato dalla crescita dei tassi sui mutui.

 

La Cisl non ha mai fatto allarmismo sui contratti a tempo determinato. C’è però l’esigenza di distinguere la buona flessibilità tutelata, negoziata, ben pagata, dalla vera e propria precarietà, denunciata recentemente anche dal governatore Visco. Nella nostra idea la possibilità che i lavori non a tempo indeterminato, opportunamente vigilati affinché non siano abusati, potessero essere una delle forme di inserimento nel mondo del lavoro è sempre stata ben presente. Così come l’idea che il lavoro debba impegnare economicamente le aziende in modo inversamente proporzionale alla durata. Meno dura l’esperienza, più deve costare all’azienda. E parte di questo costo aggiuntivo dovrebbe alimentare un fondo per le pensioni dei giovani. Ma è anche vero che se nel 2021, cioè l’anno dopo la pandemia, in un contesto in cui scommettere sul futuro era a dir poco un azzardo, non ci fosse stata la possibilità di assumere a termine difficilmente avremmo assistito all’ottimo rimbalzo degli anni successivi. Nell’incertezza di quei momenti per un imprenditore sarebbe stato difficile scegliere di impegnarsi sine die anziché stare prudentemente a guardare.

 

Questa tendenza, che oggi dà ulteriori segnali incoraggianti, va però sostenuta con investimenti e riforme che diano un impulso stabile allo sviluppo e alla crescita quantitativa e qualitativa dell’occupazione. La nostra economia però non è ancora fuori dalle paludi di un’atavica situazione di ritardo. Nonostante i segni positivi degli ultimi anni i dati sul pil sono ancora al di sotto di quelli del 2008 non avendo mai recuperato interamente le perdite dovute alle crisi che ci hanno da allora, a partire da quella finanziaria di quegli anni, martoriato: crisi del debito, pandemia e, ultimamente, guerra e gas. I segnali di recessione che vengono dalla Germania se da un lato riducono il gap dall’altro ci dovrebbero far preoccupare. Non solo perché i tedeschi sono da sempre i nostri migliori clienti, ma anche perché questa situazione deriva da situazioni comuni, a partire dal caro energia e a seguire con il rialzo dei tassi che scoraggia gli investimenti.

 

Il punto è che l’Italia, per non farsi trovare impreparata di fronte ad altre tempeste, dovrebbe attrezzarsi per ridurre le proprie fragilità strutturali, a partire da quello dimensionale delle proprie imprese che continuano ad essere microscopiche in misura eccessiva, mentre sono troppo poche le medie imprese, quelle in cui la qualità del lavoro e delle retribuzioni risulta più elevata, assieme alla produttività. Assieme ai dati sul pil e sull’occupazione sarebbe utile analizzare quelli sulla produttività per capire se l’andamento occupazionale stia supportando la crescita del valore aggiunto in modo più o meno che proporzionale. Certo è che un investimento su nuove tutele universali, sulla qualità del lavoro, sulla formazione permanente, appare più difficile in un contesto dominato da microimprese con meno di 10 dipendenti, in cui la crescita delle competenze, la ricerca, l’innovazione sono frustrate dalla ristrettezza delle dimensione e delle risorse disponibili.

 

Anche per questo la Cisl pensa che la partecipazione possa dare delle risposte importanti non solo ai lavoratori ma anche al paese. Prima di tutto come strumento di codeterminazione dell’organizzazione e delle strategie delle imprese. Ma c’è di più. La partecipazione è anche e forse soprattutto strumento di condivisione di un processo evolutivo del nostro sistema industriale che potrebbe partire da una maggior diffusione della contrattazione di secondo di livello da sostenere in qualità e quantità e da un miglior utilizzo degli strumenti di bilateralità. Siamo di fronte a uno scenario economico e sociale ancora insicuro e potenzialmente instabile, che come unica certezza ci consegna la necessità di mettere in discussione i nostri dogmi passati, per disegnare l’architettura di nuovi rapporti sociali e industriali fondati sul concetto di corresponsabilità. In tutto ciò, forse, non dovremmo sottrarci da una riflessione sulla necessità di aggiornare, anzi di anticipare, le competenze necessarie a diventare disegnatori di futuro, non solo per i lavoratori ma  anche per la classe dirigente del paese.

Luigi Sbarra è segretario generale della Cisl.

Di più su questi argomenti: