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l'audizione

Cosa non va nelle valutazioni di Bankitalia sull'aliquota unica

Nicola Rossi

Il giudizio espresso da Palazzo Koch sulla flat tax appare poco condivisibile: si tratta di un progetto lontano nel tempo che dovrebbe essere accompagnato da una revisione del sistema di welfare. L'errore sta nel non voler considerare il bilancio pubblico in termini unitari

La forza delle argomentazioni e l’autorevolezza delle posizioni della Banca d’Italia si trovano da sempre nel retroterra di analisi e di ricerca su cui poggiano. Non sono pure e semplici opinioni – per quanto provenienti da un’istituzione cui il paese deve molto – ma convincimenti e giudizi maturati nel tempo e basati su tutte le informazioni statistiche disponibili e sulla loro attenta elaborazione, filtrati dalle conoscenze teoriche più aggiornate e dal buon senso che non dovrebbe mai mancare ai banchieri centrali (e più in generale alle autorità di politica economica). 

E dunque è del tutto corretto e condivisibile e, francamente, difficilmente aggirabile l’invito formulato di recente dalla Banca d’Italia ad accompagnare la futura attuazione della delega fiscale in discussione al Parlamento con coperture “adeguate, strutturali, credibili. Non è solo un tema di equilibri della finanza pubblica ma anche di credibilità della riforma e, di conseguenza, di impatto che la stessa può avere sui comportamenti di famiglie e imprese. Allo stato attuale, l’unica indicazione certa – ma anche molto opinabile – riguarda la sostituzione del gettito derivante dall’Irap con quello proveniente da una sovrimposta all’Ires che porterebbe la tassazione del reddito di impresa oltre il 30 per cento. Un’indicazione – difficile non convenire – insufficiente, che non potrà non essere completata in tempi brevi. Lì dove i convincimenti e i giudizi espressi dalla Banca d’Italia appaiono meno fondati e, dunque, meno condivisibili è quando invece investono il progetto – peraltro lontano nel tempo – di un sistema fiscale ad aliquota unica. E non perché non sia corretta l’osservazione secondo cui, ad oggi, i sistemi tributari ad aliquota unica sarebbero propri di ambienti fiscali a uno stadio evolutivo arretrato o intermedio, ma perché in un sistema economico sviluppato come quello italiano l’introduzione di un sistema ad aliquota unica avrebbe un senso radicalmente diverso da quello che poteva avere nella Bolivia del 1986, nell’Estonia del 1994 e così via.

Preso atto della irragionevolezza di architetture fiscali che concentrano la progressività solo su alcune specifiche tipologie di redditi (essendo per diversi motivi ormai poco praticabile – ammesso che l’Italia l’abbia mai conosciuta – il ritorno alla comprehensive income tax), un sistema tributario ad aliquota unica stabilirebbe un principio di grande rilevanza e cioè lo spostamento sul versante della spesa pubblica della funzione redistributiva e il contestuale prevalente indirizzo del sistema tributario verso obiettivi di efficienza. La debolezza delle recenti valutazioni della Banca d’Italia sul sistema ad aliquota unica nasce proprio dal non voler considerare il bilancio pubblico in termini unitari (e certo non basta, da questo punto di vista, ricordare correttamente la necessità di raccordare l’imposta personale agli interventi a carattere assistenziale). In questo senso, contrariamente a quanto affermato nell’audizione presso la commissione Finanze della Camera dei deputati, non è affatto ovvio che il sistema tributario ad aliquota unica sia “poco realistico per un paese con un ampio sistema di welfare, soprattutto alla luce dei vincoli di finanza pubblica”, perché l’introduzione di questo sistema non potrebbe non essere associato a una revisione del sistema di welfare (di cui una incisiva riconsiderazione delle spese fiscali non sarebbe che il primo passo) e delle sue modalità di finanziamento. E l’invito a riconsiderare “attentamente gli effetti redistributivi” di un’ipotetica introduzione dell’aliquota unica andrebbe correttamente riferito all’intero bilancio pubblico, e non già al solo sistema tributario.

Si osserverà, con qualche ragione, che questa ampia prospettiva non è esplicitamente contenuta nella proposta governativa di riforma del sistema fiscale. Ma un’eventuale mancanza di ambizione in una proposta peraltro già molto ampia e complessa (che la stessa Banca d’Italia valuta “nel complesso in termini positivi”) non dovrebbe contribuire a distorcere il giudizio. Non è affatto ovvio, infatti, che l’invito implicito a non abbandonare la struttura del sistema tributario già sperimentata (peraltro con limitato successo) fino ad oggi debba essere considerato preferibile rispetto all’invito, invece, a trarre tutte le conseguenze derivanti della scelta di percorrere una strada diversa. Sul finire degli anni Novanta, fu Carlo Azeglio Ciampi a volere l’accorpamento dei ministeri economici. Accorpamento che fu completato fra il 1998 ed il 2001 e che avrebbe dovuto portare a una lettura unitaria del bilancio pubblico e a una formulazione organica delle politiche tanto dal lato delle entrate quanto dal lato delle uscite. Nella realtà, la gestione unitaria delle pubbliche finanze non ha avuto mai luogo, tant’è che maggioranze diverse hanno ripetutamente provato a separare ciò che Ciampi aveva unito (e che le amministrazioni hanno attivamente contribuito a tenere distinto). E’ un vero peccato che la sua lezione sia andata smarrita, come testimonia anche quest’ultima occasione.

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