Foto LaPresse

l'indagine

Processo al sindacato

Luciano Capone

Inchiesta su un paese colpito dall’inflazione, in cui aumenta l’occupazione ma diminuisce il potere d’acquisto delle famiglie. Anche per gli errori di un’agenda sindacale ferma nell’equivoco che a far crescere i salari sia la redistribuzione politica anziché la produttività. Il Primo maggio merita di più

È un Primo maggio particolare: da una parte i sindacati in piazza per una “mobilitazione” contro la perdita del potere d’acquisto dei salari e le politiche insufficienti del governo, dall’altra Giorgia Meloni che ha scelto la Festa dei lavoratori per un “decreto lavoro” che taglia il cuneo fiscale ai redditi più bassi, quelli più colpiti dall’inflazione. Il governo, rimediando rapidamente al pasticcio della maggioranza sulla mancata approvazione del Def alla Camera, mette tutte le nuove risorse liberate dallo scostamento di bilancio sui redditi da lavoro; il sindacato protesta perché non basta. In mezzo c’è una situazione economica molto complicata, sebbene gli ultimi dati sulla crescita (+0,5 per cento nel primo trimestre, con una variazione acquisita per il 2023 di +0,8 per cento) mostrino una dinamicità per certi versi inaspettata: una crisi energetica che si è attenuata ma prosegue; un’inflazione che persiste e si sta spostando dall’offerta alla domanda, ovvero dalla componente energetica a quella di fondo; una politica monetaria di rialzo dei tassi d’interesse per riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento; un debito pubblico molto elevato, ben sopra al 140 per cento, che scenderà lentamente risentendo dell’incremento della spesa per interessi; il ritorno delle regole fiscali europee dopo la sospensione dovuta prima alla pandemia e poi alla crisi energetica. Tutto questo riduce al lumicino i margini di bilancio con cui il governo – qualsiasi governo – può intervenire. E questo però il sindacato, in particolare la Cgil e la Uil, non sembra prenderlo in considerazione. Le proposte del sindacato guidato da Maurizio Landini sono un lungo elenco della spesa: taglio del cuneo fiscale di 5 punti; recupero del fiscal drag attraverso un’indicizzazione delle detrazioni; aumento della spesa pubblica per la sanità, per l’istruzione e la non autosufficienza; rinnovo dei contratti del pubblico impiego; aumento della spesa pensionistica introducendo la Quota 41. Il conto totale ammonta a qualche decina di miliardi di euro che non hanno una copertura. Il governo dovrebbe reperirli in un quadro macroeconomico in cui – in accordo con le regole europee – deve perseguire un aggiustamento fiscale di circa 20 miliardi. Un confronto, anche duro, tra governo e sindacati su queste basi è impossibile, perché non parte da un principio di realtà. 

A rendere più complesso il quadro c’è la situazione ambivalente del lavoro in Italia. Da un lato, il mercato del lavoro non è mai stato così in salute. Secondo i dati Istat, a febbraio 2023 gli occupati sono oltre 23,3 milioni con un tasso di occupazione del 60,8 per cento, il più alto da quando ci sono le serie storiche, in aumento di 350 mila unità rispetto all’anno precedente (+1,5 per cento). Ma il dato significativo è che il miglioramento è dovuto integralmente ai contratti a tempo indeterminato: i dipendenti permanenti in un anno sono aumentati di 515 mila unità (+3,5 per cento), a fronte di una forte riduzione dei dipendenti a tempo determinato di 143 mila unità (-4,6 per cento), che tornano a scendere sotto i 3 milioni, e di un lieve calo degli autonomi (-20 mila unità) che restano attorno ai 5 milioni. Simmetricamente si registra una riduzione sia dei disoccupati che degli inattivi. Dall’altro lato, i lavoratori italiani sono quelli che di più hanno visto alleggerirsi la busta paga. Secondo l’ultimo rapporto sull’impatto dell’inflazione sui salari dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), “in Italia l’impennata inflazionistica ha eroso i salari, producendo una riduzione dei salari reali di quasi 6 punti percentuali nel 2022 che è più che doppia rispetto alla media europea”. L’impatto dell’inflazione si somma a quello del Covid, visto che nel periodo 2020-21 si è registrata una “crescita più che modesta delle retribuzioni mensili di 0,1 punti percentuali (effetto pandemia), rispetto agli 1,7 punti della media dei paesi dell’Unione europea”. Un dato che sembra andare in direzione opposta è quello contenuto nel rapporto “Taxing wages” dell’Ocse, appena pubblicato, secondo cui in Italia nel triennio 2019-2022 (ovvero quello del Covid e della crisi energetica) la crescita media nominale dei salari (quindi senza considerare l’impatto dell’inflazione) è stata del 2,57 per cento. 

Una crescita superiore a quella di Germania, Francia e Spagna, e più del doppio rispetto alla media italiana del decennio precedente. Il dato evidentemente riflette un rafforzamento del mercato del lavoro ma non un miglioramento della dinamica salariale: la crescita del salario medio è dovuta alla trasformazione dei contratti a tempo indeterminato o al passaggio da part time a full time, più che a una crescita dei salari orari. In pratica, molti più italiani lavorano e hanno un’occupazione a tempo pieno e permanente, e allo stesso tempo quelli che avevano un lavoro a tempo indeterminato guadagnano di meno rispetto a prima

Le imprese fanno fatica a trovare dipendenti, soprattutto quelli specializzati, e allo stesso tempo non aumentano le retribuzioni come ci si attenderebbe in situazioni del genere. Quindi assumono con contratto a tempo indeterminato per formare i lavoratori ai profili professionali che servono e cercano di trattenere i dipendenti offrendo come premio l’assicurazione del posto fisso. Ma i rinnovi contrattuali sono lenti e contenuti, sicuramente non adeguati a recuperare la perdita di potere d’acquisto: la differenza tra la dinamica dell’inflazione (indice Ipca) e quella delle retribuzioni è superiore ai sette punti percentuali. Secondo gli ultimi dati Istat, nel primo trimestre 2023 sono stati firmati sei contratti: autorimesse e autonoleggio, servizi socio-assistenziali, gomma e materie plastiche, vetro, Fiat/Stellantis, lavanderie industriali. Mentre i contratti in attesa di rinnovo sono 32 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti, il 55,6 per cento del totale. La retribuzione oraria media è cresciuta del 2,2 per cento rispetto allo stesso periodo del 2022, con alcune differenze anche ampie. Le retribuzioni contrattuali orarie sono aumentate dell’1,4 per cento nell’industria, dello 0,9 per cento nei servizi e del 4,9 per cento nella pubblica amministrazione. La differenza si allarga se si considerano gli aumenti specifici di alcune categorie del pubblico impiego come vigili del fuoco (+11,7 per cento), ministeri (+9,3 per cento), servizio sanitario nazionale (+6,4 per cento) a fronte di un incremento nullo per edilizia, commercio, farmacie private e pubblici esercizi e alberghi. Di fronte a questo scenario, nelle ultime settimane nelle categorie che devono rinnovare i contratti stanno emergendo richieste di aumenti consistenti (435 euro per i bancari, 300 euro per gli alimentaristi, 220 per le pelli e 200 per l’occhialeria) che però le controparti imprenditoriali difficilmente riescono a concedere anche per l’incertezza che riguarda i prossimi mesi e anni. Forse, come strategia negoziale, sarebbe stato preferibile per il sindacato chiedere ai datori bonus una tantum, in maniera simmetrica alle politiche pubbliche di aiuti temporanei contro il caro energia attuate dai governi, per ottenere subito un recupero della fiammata inflazionistica che non è considerata dall’indice dei prezzi Ipca (al netto degli energetici importati) usato come base per la contrattazione, per poi negoziare sul resto. 

La scelta è stata diversa. La lettura di Maurizio Landini, riprendendo analisi della Bce sull’andamento dei prezzi nell’Eurozona, è che l’inflazione sia trainata dai profitti: quindi ci sono margini per un incremento dei salari che non impatti sull’inflazione, se solo le imprese rinunciassero a una parte dei maggiori guadagni. E’ probabile che ci siano imprese che, a fronte dello choc energetico, siano riuscite ad aumentare i prezzi e non li abbiano ridotti quando il costo dell’energia si è abbassato. Ma la risposta non può essere, come chiede Landini, “un contributo straordinario di solidarietà sui profitti”. Perché una norma del genere, a differenza della tassa sugli extraprofitti che impattava su settori specifici, colpirebbe indistintamente le aziende. Se i profitti delle imprese sono aumentati vuol dire che c’è margine per rivendicazioni salariali, ma è un aspetto che riguarda la contrattazione tra le parti perché non tutti i settori sono uguali. Non a caso, i settori in cui i salari sono stagnanti sono quelli dei servizi e non-tradable dove la produttività e i margini sono bassi (commercio, alberghi, terziario).
E’ lo stesso errore che, più in generale, i sindacati fanno guardando alla dinamica salariale negativa degli ultimi decenni. Vengono importate letture, spesso da oltreoceano, che non combaciano con la realtà italiana. Si discute molto in America, e anche nel resto d’Europa, del fatto che negli ultimi decenni gli aumenti di produttività siano stati catturati in gran parte dalle imprese e solo in parte redistribuiti ai lavoratori, che si trovano in una posizione debole a causa della flessibilizzazione del mercato del lavoro e dell’indebolimento dei sindacati. L’ultimo rapporto dell’Ilo mostra che tra il 2008 e il 2022 solo due paesi europei hanno registrato una diminuzione dei salari reali: Spagna e Italia (con l’Italia che fa il doppio peggio -12 punti percentuali contro -6). Ma se si guarda alla produttività, all’Italia è accaduto il contrario di ciò che affermano i sindacati. Secondo i dati dell’Ilo, nel periodo 1999–2022 la produttività del lavoro dei paesi dell’Ue è cresciuta del 21,5 per cento e quella dei salari reali del 17,6 per cento (il 3,9 per cento in meno della produttività), mentre in Italia sia la produttività del lavoro sia i salari reali sono diminuiti. Anzi, se dove in Europa le retribuzioni sono cresciute l’aumento salariale è stato inferiore all’aumento della produttività, in Italia la dinamica è stata opposta: per tutti gli anni Duemila e fino al Covid, dove c’è stata un’inversione di tendenza, in Italia i salari hanno avuto un andamento superiore a quello della produttività. Seppure entrambi in un trend discendente.

In questo quadro si inserisce pure la richiesta di Landini di “riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”, ovvero il passaggio alla settimana lavorativa da quattro giorni. Anche qui, evidentemente, il punto è la produttività: solo incrementi di efficienza possono far ridurre il numero di ore lavorate senza ridurre la retribuzione. Ma anziché invocare un intervento del governo, che non può imporre per decreto una riduzione dell’orario di lavoro erga omnes che avrebbe un effetto devastante su un tessuto produttivo così diversificato da nord a sud, il compito del sindacato dovrebbe essere quello di riuscire a siglare accordi aziendali di questo tipo. E usare successivamente queste sperimentazioni, se di successo, come un modello per le altre imprese. Anche perché sarebbe preferibile lasciare al livello aziendale la scelta di come distribuire i guadagni di produttività, se attraverso una riduzione dell’orario di lavoro o – soprattutto in fase di elevata inflazione come questa – attraverso un aumento dei salari. E’ la linea che circa quarant’anni fa suggeriva Ezio Tarantelli parlando di una “maggiore flessibilità nell’uso e nella divisione del lavoro in un quadro di decentramento contrattuale” in cui “il sindacato aziendale contratta con l’azienda sul se e sul come l’organizzazione del lavoro può essere adattata alla richiesta”. 

In questa scia va la legge di iniziativa popolare sulla “partecipazione al lavoro” presentata dalla Cisl, di cui ha scritto sul Foglio Dario Di Vico, che punta a “una governance d’impresa partecipata dai lavoratori”. Siccome è la crescita della produttività del lavoro il fattore determinante per una crescita dei salari sostenibile nel tempo, il sindacato dovrebbe concentrarsi su quello. Su come far crescere la torta da dividere, anziché rivendicare fette più grandi di una torta che non cresce. E’ su questi temi che dovrebbe sedersi al tavolo con datori di lavoro e governo per sfidarli.
 

E’ un piano diverso rispetto a molte recenti prese di posizione. Negli ultimi anni il sindacato si è imbarcato in battaglie sbagliate, dividendosi anche su scioperi generali politici dall’esito fallimentare. La prima è stata il no al Green pass, che Landini definì un “colpo di sole” della Confindustria, una proposta “inaccettabile”, perché basata su una “logica sanzionatoria e punitiva verso il mondo del lavoro”. Il tempo e i dati hanno dimostrato che il Green pass è stato fondamentale per far aumentare il tasso di vaccinazione, producendo due importanti risultati: maggiore sicurezza negli ambienti di lavoro e una maggiore crescita economica dovuta alle aperture possibili grazie all’ampia copertura vaccinale. Il secondo fronte di contrasto al governo Draghi ha riguardato la fine del blocco ai licenziamenti a giugno 2021, che secondo il sindacato sarebbe stato una “bomba sociale”: “700 mila licenziamenti attesi dal 1° luglio”, diceva la Cgil; “1 milione di licenziamenti”, era la previsione della Uil di Pierpaolo Bombardieri. La realtà ha dimostrato l’esatto contrario: occupazione ai massimi storici, incremento dei contratti a tempo indeterminato, riduzione di quelli precari, calo di disoccupati e inattivi. Non ci sono stati 700 mila licenziati, ma quasi 700 mila occupati in più. Il culmine del contrasto al governo Draghi è stato lo sciopero generale, cha ha diviso l’unità sindacale con la Cisl di Luigi Sbarra contraria alla scelta di Cgil e Uil, in opposizione a una legge di Bilancio “regressiva” e “socialmente ingiusta”, che avrebbe aggravato il problema delle “diseguaglianze”. Un anno dopo è arrivata la smentita dei fatti. L’Istat ha mostrato che i provvedimenti fiscali di quella manovra – riforma Irpef e Assegno unico – hanno ridotto sia la diseguaglianza sia il rischio di povertà. In pratica, mentre il paese viveva una sostenuta crescita economica, un boom occupazionale e una riduzione della diseguaglianza, il sindacato scioperava prevedendo l’esatto contrario. 

Fatalmente, quando è arrivato il centrodestra, si è ripetuto il rito dello sciopero generale contro la legge di Bilancio. Era inevitabile: Cgil e Uil avevano scioperato contro Mario Draghi e non potevano non farlo contro Giorgia Meloni. Lo stesso meccanismo si sta riproponendo contro il Def. Ma le ragioni della protesta sono poco comprensibili. Perché Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti stanno esattamente seguendo l’agenda Landini: con il decreto Lavoro, tutte le risorse disponibili (oltre 3 miliardi) vanno al taglio dei contributi dei lavoratori a basso reddito. Per Landini non è sufficiente: “La nostra richiesta è una riduzione di 5 punti del cuneo contributivo”. Forse il leader della Cgil non ha fatto bene i conti. A novembre 2022, quando si discuteva la proroga del taglio contributivo di due punti del governo Draghi, la richiesta di Landini al governo Meloni era “che il taglio del cuneo fiscale non sia di 2 punti ma di 5”. Meloni e Giorgetti hanno alzato la decontribuzione a 3 punti, stanziando 4,6 miliardi, ma Cgil e Uil hanno scioperato comunque chiedendo “la decontribuzione al 5 per cento”. Ora, aggiungendo 3 miliardi e passa, il governo arriva per il 2023 esattamente ai 5 punti di decontribuzione richiesti dalla Cgil. Ma Landini, come un disco rotto, continua a chiedere 5 punti di taglio dei contributi, aggiungendo altre richieste di spesa come base della “mobilitazione”. Ma il governo i soldi li ha messi tutti sui lavoratori, non ce ne sono altri. Se il sindacato vuole più risorse e una manovra ultra-espansiva – che non tenga conto del debito pubblico e dei vincoli reali di bilancio – prima che contro il governo, dovrebbe scioperare contro le nuove regole fiscali proposte dalla Commissione Ue che vincoleranno la politica economica dei governi italiani per i prossimi anni. Ma naturalmente la Cgil e la Uil non se la sentono di fare una battaglia antieuropeista ora che quelli che erano antieuropeisti sono al governo. 

Il Concertone del Primo maggio così come la mobilitazione politica vanno sempre bene, soprattutto ora che a Palazzo Chigi c’è la destra, ma una volta arrotolate le bandiere e tornati in sede dalla piazza, sarebbe il caso di aprire una riflessione critica e magari adottare un approccio più pragmatico. Anche perché la politicizzazione non è qualcosa che faccia bene al sindacato, soprattutto in una fase storica ormai lunga e consolidata in cui gli operai votano in larga parte per la destra (il primo partito tra gli operai è Fratelli d’Italia, poi segue la Lega). Da un sondaggio Ipsos commissionato lo scorso anno dalla Cgil di Bergamo, proprio alla vigilia del Primo maggio, emergeva che il 78 per cento degli intervistati era critico del legame storico tra sindacato e sinistra (il dato saliva al 79 per cento tra i lavoratori ed era maggioritario persino tra gli iscritti alla Cgil: 56 per cento): “Sindacati politicizzati non sono né più attrattivi né tantomeno più efficaci: solo 1 su 5 è incentivato a iscriversi dalla vicinanza di idee politiche del sindacato, e circa metà del campione ritiene che un sindacato politicizzato sia meno credibile e meno efficace sui temi del lavoro”, era il commento di Nando Pagnoncelli, che evidenziava una “maggioranza schiacciante” da parte di chi ritiene che “il sindacato debba occuparsi solamente di ciò che riguarda il mondo del lavoro rispetto a chi crede che debba prendere posizione su tutti i temi di attualità politica”. E’ facile presumere che l’opinione non sia cambiata.

In questo senso, è stato un intelligente segnale di apertura l’invito di Landini a Giorgia Meloni al XIX Congresso della Cgil. Peraltro in quell’intervento della presidente del Consiglio sono emersi diversi spunti su cui il sindacato può costruire un dialogo. Uno, paradossalmente, è il salario minimo. Il salario minimo orario è una proposta che, per quanto siano state depositate versioni diverse, unisce le opposizioni dal Pd al M5s passando per l’ex Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. La premier, invece, è contraria: “C’è il rischio che la fissazione per legge di un salario minimo diventi non una tutela aggiuntiva rispetto a quelle garantite dalla contrattazione collettiva, ma una tutela sostitutiva e questo finirebbe per fare un altro grande favore alle grandi concentrazioni economiche che hanno come obiettivo quello di rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori”, ha detto la Meloni alla platea della Cgil usando argomenti noti a quelle orecchie: “Credo che la strada più efficace sia estendere i contratti collettivi ai settori non coperti, allargando così la platea dei tutelati, combattere i contratti pirata, potenziare l’attività di contrasto al lavoro irregolare, intervenire per ridurre il carico fiscale sul lavoro”. E’ la posizione dei sindacati. La Cgil è parzialmente favorevole al salario minimo, da usare in maniera residuale rispetto alla strada maestra che è dare valore erga omnes ai contratti collettivi firmati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. Per la Uil la direttiva europea, formalmente già rispettata dall’Italia, va applicata “potenziando il sistema della contrattazione collettiva e le relative tutele sia economiche che normative” e prevedendo al limite una soglia minima, come suggerisce l’Europa, pari al 60 per cento del salario mediano che però è un livello molto più basso dei 9 euro l’ora o più proposti dalle opposizioni. Questo perché il rischio è che un salario minimo elevato, oltre a distruggere lavoro, smantelli la contrattazione collettiva spingendo al ribasso le tutele. La Cisl è ancora più netta nella “contrarietà all’interferenza della legge con il sistema contrattuale”, ritenuto lo strumento migliore per la tutela dei lavoratori. In audizione parlamentare sul tema la Cisl ha anche polemizzato con l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando, accusato di aver presentato due disegni di legge alternativi ed entrambi non aderenti alla proposta su cui era stato trovato un accordo per valorizzare la contrattazione ed il ruolo delle parti sociali nella determinazione dei salari. La mancata approvazione di quella legge, sottolinea con una punta di veleno la Cisl, “appare oggi dovuta, più che alla prematura fine della precedente legislatura, a un preesistente deficit di volontà dello stesso ex ministro, oggi sottoscrittore delle proposte divergenti”. La ex proposta Orlando, paradossalmente, ora potrebbe essere la base per un accordo con il governo Meloni. Ma per estendere la validità dei contratti più rappresentativi ed eliminare i cosiddetti “contratti pirata” serve  una legge sulla rappresentanza, che i sindacati invocano da tempo e su cui non trovano mai un accordo.

E’ chiaro che ci sono temi su cui sindacato e governo continueranno a scontrarsi per le loro visioni inconciliabili: uso dei voucher, taglio del Reddito di cittadinanza, flat tax, maggiore flessibilità e lotta al precariato, modalità di contrasto dell’evasione fiscale. Ce ne sono altri su cui hanno visioni coincidenti, come le pensioni, ma che la realtà economica e demografica del paese impone di riconsiderare: il governo l’ha già fatto, mentre i sindacati hanno una maturazione più lenta persino di Matteo Salvini (finanche il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che entrò in politica con il M5s promettendo di abolire la legge Fornero, ora dice che “non ci sono le condizioni per abolire o cambiare a fondo la riforma”). Infine ci sono temi su cui i sindacati possono dialogare e trovare un’intesa con il governo: taglio del cuneo fiscale, politiche per i figli e la famiglia, salario minimo, formazione dei lavoratori, attuazione del Pnrr, patto per la produttività. Certo, servirebbe uno sguardo critico sul recente passato e una dose maggiore di responsabilità. 

In questa fase delicata per la stabilità economica del paese e per l’erosione salariale dovuta all’inflazione, il sindacato italiano è di fronte a un bivio. Da un lato c’è la tentazione, sull’onda anche emotiva degli scioperi contro la riforma delle pensioni di Macron, di seguire la strategia dura e barricadera dei sindacati francesi. Ma non è esattamente nella tradizione del sindacato italiano. Dall’altro lato c’è la possibilità di percorrere un percorso più responsabile simile a quello che portò alla firma del Protocollo Ciampi del 1993, di cui peraltro quest’anno ricorre il trentesimo anniversario.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali