Il segretario nazionale Cisl Luigi Sbarra (Ansa)

Capitale & lavoro

Le best practice aziendali raccolte dalla Cisl, una “spinta” per approfondire il dibattito sui salari

Dario Di Vico

Motivi validi per prendere sul serio la proposta di legge del sindacato sulla governance aziendale partecipata. Un rilancio delle riflessioni sulla democrazia economica improntato alla stabilità e all'equilibrio

Modesto suggerimento: prendiamo sul serio la proposta di legge di iniziativa popolare sulla “partecipazione al lavoro” presentata in questi giorni dalla Cisl. L’obiettivo dichiarato è quello di “una governance d’impresa partecipata dai lavoratori”, nella sostanza è un rilancio delle riflessioni sulla democrazia economica che sono una sorta di fiume carsico del sindacalismo italiano e in qualche maniera anche della sinistra modernista (a suo tempo era un’idea cara agli intellettuali di Mondoperaio).

 

È giusto prenderla sul serio innanzitutto per il rispetto che si deve a un filone del laburismo italiano, come quello rappresentato dalla Cisl, che è sempre stato originale e fecondo di soluzioni non prefabbricate. Il secondo motivo è che nel confuso quadro delle relazioni tra politica e sindacati in questa fase di riorganizzazione dell’offerta politica e delle modalità di interlocuzione con la società civile organizzata, la Cisl è comunque un punto di equilibrio, non si muove mai per sollecitazioni muscolari ma coltiva l’idea di aver come bussola il quadro di insieme. Il terzo, e forse più interessante motivo per i lettori del Foglio, è che rispetto ai problemi che abbiamo di fronte (bassa produttività rispetto ai cugini-concorrenti e rischi di una rincorsa salariale per far fronte a un’inflazione che comunque resterà a livelli significativi non inferiori al 5 per cento) non abbiamo per ora una strumentazione di sistema da utilizzare per far convergere i comportamenti degli attori sociali verso un orizzonte comune. La legge di iniziativa popolare della Cisl può esserlo anche perché non è costruita con un intento rivendicativo, ma considera la formalizzazione della partecipazione dei lavoratori uno step più avanzato di quanto comunque in questi anni si è fatto per dare corpo a quelle “complicità” tra capitale e lavoro nate in ambito aziendale. In questo quadro, la partecipazione non è, nell’impostazione data dalla Cisl, una rupture con le relazioni industriali “reali”, bensì uno sviluppo coerente di pratiche sociali e di comportamenti adottati da parte delle direzioni d’impresa più aperte al cambiamento.

 

Nella relazione che accompagna la proposta dei 22 articoli di legge, infatti, più che una ricognizione della storia della democrazia economica e dei suoi passaggi più rilevanti (sia in termini di elaborazione sia di successive stroncature) tutta l’argomentazione pro legge si basa sul “movimento”, su ciò che è avvenuto e sta avvenendo e contiene in nuce, sempre secondo la confederazione guidata da Luigi Sbarra, la possibilità di accelerare il cammino. Certo non manca nel testo l’affermazione di una continuità con il dettato costituzionale (articolo 46) né il censimento puntuale di norme già esistenti in cui si sono affermati princìpi di collaborazione attiva. Dalla detassazione dei premi di risultato (2015) che chiedono un “coinvolgimento paritetico” fino alla disciplina chiamata work for equity prevista per startup, Pmi innovative e incubatori di impresa, che prevede di remunerare i lavoratori con strumenti di partecipazione al capitale sociale. Ma, ripeto, l’aspetto più originale della proposta Cisl è che si basi sulle best practice aziendali (ne vengono citate una trentina) che già hanno realizzato nel concreto della quotidianità aziendale esperienze di coinvolgimento formalizzato dei lavoratori. Prendiamo Inwit (telefonia) dove è stato creato un comitato paritetico per il raggiungimento di incrementi di produttività. Oppure Luxottica, con l’azionariato ai dipendenti e il comitato di partecipazione “destinato a ricevere informazioni riservate e tempestive” sul piano di integrazione con Essilor. O ancora la “Charta dei rapporti di lavoro in seno al gruppo Volkswagen” che ritroviamo nella Lamborghini. Il rappresentante delle organizzazioni sindacali nel board divisionale della Lino Manfrotto e della Vitec Group. Il comitato consultivo della Piaggio & C. con finalità informative sui mercati in cui opera l’azienda, le strategie industriali e le ricadute sull’organizzazione aziendale. E via di questo passo con Autostrade, Ferrovie dello stato, Leroy Merlin e gli organismi bilaterali consultivi presenti in Enel, Terna, Acea, A2A, Erg ed Edison.

 

I 22 articoli che seguono sono estremamente dettagliati nel delineare le definizioni di partecipazione gestionale, finanziaria, organizzativa e consultiva. E hanno il loro cuore nella proposta della presenza di un rappresentante dei lavoratori – eletto secondo disposizioni che saranno presenti nei contratti collettivi di lavoro – sia nelle Spa con governance dualistica, sia nelle altre società con forme giuridiche differenti e infine nelle partecipate pubbliche. Per le Spa la quota di presenza nel consiglio di sorveglianza è “non inferiore a un quinto dei componenti del consiglio”. Negli altri due casi – laddove non esiste il consiglio di sorveglianza – si chiede la nomina di almeno un rappresentante dei lavoratori. La seconda materia che è regolata dalla proposta Cisl è la partecipazione finanziaria con possesso di azioni e distribuzione degli utili. L’articolo 8 poi introduce l’istituto del voting trust molto diffuso nel diritto anglosassone per la gestione collettiva dei diritti derivanti dalla partecipazione finanziaria. Gli articoli successivi sanciscono i doveri di trasparenza, i meccanismi premiali per le aziende e l’insieme delle norme costituisce abbondante materia di riflessione e di confronto per la vivace tribù dei giuslavoristi italiani. E sicuramente è difficile rintracciare elementi che possano far gridare all’eversione.

 

Per questa considerazione e per l’insieme del tessuto di coesione che la proposta Cisl viene a irrobustire l’iniziativa della legge popolare può essere un’occasione da non sprecare. C’è bisogno nel sistema delle relazioni industriali di fare un passo in avanti rispetto alle pur lodevoli best practice. Oltre a sottolineare ogni volta come Luxottica e Federmeccanica siano due scuole imprenditoriali di sperimentazione di soluzioni innovative il rischio è che il dibattito – come è successo finora – resti confinato nell’ambito degli affezionati cultori della materia. La legge popolare permette di uscire dal recinto degli happy few e coinvolgere la politica. Che cosa pensa, ad esempio, la nuova conduzione del Pd affidata a Elly Schlein di una proposta come quella avanzata dalla Cisl? La considererà troppo “vecchia” e socialdemocratica? E in campo governativo tutte le tendenze centriste che hanno preso piede nel melonismo ma anche nelle componenti leghiste meno identitarie sono disposte a investire sulla partecipazione dei lavoratori, tema che in qualche maniera può addirittura ricollegare i Giorgetti e i Fedriga al “Bossi pensiero” delle origini? Ma uscendo dal confronto diretto con la politica e privilegiando, invece, come campo d’osservazione i problemi è evidente che il dibattito sui salari italiani per fare un passo in avanti ha bisogno di una spinta. Quale migliore occasione per discutere di partecipazione e produttività che la proposta Cisl? In queste settimane si stanno affastellando da parte delle categorie che devono rinnovare i contratti richieste (435 euro per i bancari, 300 euro per gli alimentaristi, 220 per le pelli e 200 per l’occhialeria) che vengono guardate con qualche preoccupazione dalle controparti imprenditoriali e la rottura in corso tra Federlegno e sindacati di categoria – con lo sciopero nazionale indetto provocatoriamente nei giorni del Salone di Milano – ne è stata in qualche modo il segno più visibile. 

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