(foto Ansa)

welfare aziendale

Star bene in fabbrica e fuori: il salto di qualità dell'integrativo Luxottica

Dario Di Vico

Non solo bonus e premi, bensì benessere nello stile di vita e bilanciamento con il lavoro. L'azienda inizia a costruire insieme ai dipendenti gli obiettivi da portare avanti. Una piccola rivoluzione culturale che dipende anche dal Covid

Nel 2020 quando Pietro Ichino scrisse un libro, per dire che i dipendenti avrebbero cominciato “a scegliersi il datore di lavoro”, fu preso sottogamba. Se non peggio. Il libro fu catalogato come una delle provocazioni intellettuali di un giuslavorista scomodo e controcorrente e niente di più. Invece oggi dobbiamo riconoscere che aveva visto lungo. Le aziende faticano a ingaggiare i loro dipendenti e sono chiamate a rinnovare la loro cultura come conditio sine qua non per uscire vincitrici da quest’incredibile sfida. 

 

Una conferma viene da Agordo, il luogo in cui per l’intuizione di Leonardo Del Vecchio è nato il welfare aziendale. Si cominciò con il carrello della spesa offerto ai dipendenti, si passò alla polizza sanitaria, ai libri di testo per i figli e più di recente all’azionariato diffuso. Correva l’anno 2009, il sindacato rimase inizialmente spiazzato ma poi, più per la convinzione dei dirigenti locali che di quelli romani, decise di prendere il treno e non scendere mai più. Ed è questa forse una delle poche prove che il sindacalismo italiano degli anni Duemila ha superato con pieno merito, al punto che ora alla vigilia del rinnovo del contratto integrativo Luxottica la dirigenza della multinazionale degli occhiali non ha timore a dire che da questo rinnovo si aspetta risposte ai problemi del lavoro nel dopo Covid e che queste risposte vuole costruirle con Cgil, Cisl e Uil.

 

La discontinuità è che il tipo di patto aziendale che si andrà a costruire non solo vuol essere un modello per i prossimi 20 anni ma opera un salto di qualità: si esce dal contesto meramente redistributivo, dall’erogazione di reddito via servizi e si entra nell’area dell’ingaggio. La formula che predilige Piergiorgio Angeli, direttore risorse umane mondo del gruppo, suona così: “I lavoratori possiedono un’energia discrezionale che va oltre la semplice job description della loro mansione, e la decisione di devolvere quell’energia all’azienda passa per l’ingaggio, la piena condivisione degli obiettivi comuni e la consapevolezza del ruolo che il singolo ricopre”.

 

Non si parlerà quindi solo di bonus e premi di risultato – come peraltro avviene in tante aziende italiane, in testa per numeri la Ferrari – ma di stare bene in fabbrica e fuori, salute mentale, qualità della vita, bilanciamento con il lavoro. Se il termine non fosse abusato si potrebbe parlare di una piccola rivoluzione culturale, l’azienda riconosce che ingaggiare i suoi dipendenti è una priorità e mette in tavola le carte per riuscirci. Un socialdemocratico old style ci potrebbe trovare qualche assonanza con la famosa formula “dalla culla alla tomba”, salvo che nel ’900 ovviamente si parlava di redistribuire vantaggi e assistenza materiale, qui parliamo di incrocio di culture e di obiettivi costruiti assieme e non calati dall’alto. Il proposito è di evitare che il lavoro possa causare addirittura incomprensione e moderna solitudine.

 

I dirigenti Luxottica sono dei sognatori? Leggendo il track record della multinazionale non pare proprio, hanno i piedi ben piantati per terra. Quando si parla del gruppo si fa riferimento sempre alla fusione tra il corpo originario di Belluno e la francese Essilor e si dimentica che c’è una terza componente di peso nella taglia extra-large del gruppo, la olandese GrandVision. Ottantamila addetti vengono dalla matrice italiana, 60 dalla francese e altri 40 da Amsterdam. Se la cultura del welfare viene da Del Vecchio, i francesi hanno apportato l’attenzione all’azionariato “strutturato” dei dipendenti e così oggi ci sono 80 mila dipendenti azionisti, di cui 10 mila in Italia. E ci sono 2 mila ragazzi e ragazze figli dei dipendenti da Italia, Francia, Olanda, Belgio, Germania e Israele che quest’anno parteciperanno alle iniziative estive di Bibione, una dimostrazione che EssilorLuxottica si sente olivettianamente un’azienda comunità.

 

Niente di quanto stiamo raccontando sarebbe accaduto senza lo tsunami del Covid, il clamoroso sviluppo dello smart working, l’avvento di una nuova stagione del lavoro con il collegamento da remoto. In EssilorLuxottica il 95 per cento della popolazione uffici lo ha praticato e adesso si è deciso comunque che il 50 per cento del tempo si lavorerà da casa con soli due o tre giorni settimanali di presenza in azienda. Nel linguaggio di Angeli, l’ufficio viene definito “un tool, non un obbligo, a disposizione per svolgere le proprie mansioni”. Ma come ha reagito il middle management – quello più legato al giorno per giorno – al rischio di restare in mezzo al sandwich, di rimanere incastrati tra un vertice visionario e una base liberata dai suoi lacci e lacciuoli? Per anticipare il pericolo, evitare scollamenti e troppa distanza tra i reparti, la direzione risorse umane ha organizzato corsi di leadership per 11 mila manager con focus sulle “new ways of working”. Non tutto al tempo del lockdown però è filato liscio, tanto che si sono create anche aree di disagio fisico e psichico che sono state affrontate con servizi di consulenza psicologica, sedute di terapia con professionisti, infine con iniziative di “disconnessione”, opportunità ed eventi organizzati per stare insieme. E il fenomeno delle grandi dimissioni, alla fine, non ha colpito molto EssilorLuxottica, dove i tassi di uscita volontaria si sono assestati ben al di sotto della media.

 

Ricostruito il retroterra culturale delle scelte di oggi e il carico da 90 rappresentato dal Covid si torna all’attesa del nuovo contratto integrativo. Nel suo percorso di integrazione continua, l’azienda ha lanciato una maxi-ricerca interna che punta ad avere indietro quanti più questionari compilati dai 200 mila dipendenti nel mondo (in fabbrica il 70 per cento è donna ed è impegnato in mansioni non automatizzabili) e anche in base alle risposte darà nuova forma alla cultura del gruppo e troverà spunti per sedersi al tavolo con i sindacati.

 

L’intenzione dichiarata è di affrontare le discontinuità, “di produrre un ingaggio emozionale”, di sperimentare negli uffici ma anche nelle fabbriche del gruppo un nuovo schema di relazioni industriali. “Il cambiamento è una palla di neve che se non l’affronti diventa una valanga” dice a mo’ di vecchio proverbio Angeli. È una linea di continuità con le intuizioni di Leonardo Del Vecchio fatta propria dall’amministratore delegato Francesco Milleri, che però è attesa al varco: dovrà produrre nuove pratiche. Sul posto di lavoro bisogna star bene ed è interesse dell’azienda che avvenga davvero. “Innanzitutto per migliorare le imprese”, chioserebbe maliziosamente Ichino.

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