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L'analisi

Semplificare la quotazione delle Pmi? Bene, ma si può fare di più

Oscar Giannino

Il disegno di legge sulle semplificazioni del mercato dei capitali portato ieri dal governo in Consiglio dei ministri va nella giusta direzione. Ma su almeno due punti è il caso di riflettere: Consob e azioni a voto plurimo

Era da tempo atteso il disegno di legge sulle semplificazioni del mercato dei capitali portato ieri dal governo in Consiglio dei ministri. In vista di tale obiettivo il Mef, nella scorsa legislatura, aveva predisposto un organico Libro Verde, sottoposto a vasta consultazione pubblica. I numeri ne spiegano il perché. Il nostro mercato dei capitali resta asfittico. Tra il 2020 e oggi la raccolta di capitali sui mercati degli Stati Uniti è stata doppia rispetto a Cina e Hong Kong, sei volte quella nei paesi Ue-27. Negli ultimi due anni il mercato Usa ha mostrato una capacità di finanziamento dell’economia reale superiore del 50 per cento a quella della Cina, quattro volte quella della Ue-27. Il rapporto tra capitali raccolti e pil è comparabile a quello di Stati Uniti e Cina solo in Regno Unito, Svezia e Olanda; Germania, Francia e Spagna registrano un rapporto tra il 35 e il 50 per cento di quello Usa, l’Italia ha un valore inferiore di 16 volte a quello Usa, 7 volte inferiore a quello medio europeo. In 11 anni le Offerte pubbliche iniziali (Ipo) lanciate su tutti i segmenti del mercato italiano hanno raccolto circa 21 miliardi di euro.

 

Le già quotate hanno raccolto poi circa 65 miliardi. Il mercato italiano ha fornito alle imprese italiane in 11 anni quanto la borsa di Londra raccoglie in un anno. Per superare questo immenso gap che frena gli investimenti del paese, sono positivi molti interventi previsti nel ddl al fine di evitare il goldplating, cioè oneri e adempimenti maggiori in Italia che nella disciplina armonizzata dei mercati finanziari. Nonché il superamento di peculiarità nazionali che si riflettono in compressione dell’autonomia statutaria delle imprese. Tutti fattori che hanno spinto diverse società italiane a trasferire la propria sede legale in ordinamenti più favorevoli, mantenendo la quotazione in Italia. Quindi meritano un plauso le novità relative alla fase di quotazione, dai tempi previsti a più snelle maggioranze in assemblea per aumentare il capitale, all’eliminazione del limite massimo di obbligazioni che una società può emettere riservate ai soli investitori istituzionali, nonché l’innalzamento a un miliardo di euro della soglia in cui la Pmi vede ampliate le semplificazioni del suo regime, i tempi più chiari per le autorizzazioni, l’estensione del voto per delega in più assemblee. 

 

Ma su almeno due punti è il caso di riflettere: Consob e azioni a voto plurimo. Su Consob, bene escludere azioni di responsabilità dei vigilati nei confronti di singoli soggetti dell’Autorità, ma male non collegare tale misura sia all’inadeguatezza e inefficienza del sistema giudiziario in materia societaria, sia a quella del corrente quadro sanzionatorio amministrativo, assolutamente sovradimensionato rispetto agli approcci prevalenti negli altri paesi Ue. Quanto all’innalzamento dei voti plurimi ammessi per azione, salendo dai 3 attuali previsti fino a 10, esso raccoglie il grido di dolore sovranista che da anni si leva contro ordinamenti in cui il voto plurimo in tali proporzioni e anche maggiori c’è da tempo. Come in Olanda. E piacerà moltissimo al più delle piccole e medie imprese che da sempre affermano di non quotarsi per il timore di perdere il controllo familiare delle società.

 

Tuttavia, vanno considerati anche tre elementi “contro” questa riforma. Primo: in un mercato asfittico i vincoli anti Opa ostili, confermando il controllo a chi ce l’ha, esercitano un effetto molto più restrittivo e anti crescita di quanto non avvenga in mercati cui si orientano capitali a multipli elevatissimi rispetto a quello italiano. Secondo: se si dichiara di voler virtuosamente attirare capitali esteri, la nova norma non tiene conto che le società di diritto estero quotate sul mercato di Milano possono già usufruire di un quadro giuridico non solo più liberale, ma anche dei voti multipli se previsti nel paese in cui hanno sede legale. Terzo: se si collega tale norma alla vastissima estensione dei settori e dei poteri di golden power attribuiti in questi anni al governo italiano, il messaggio inequivoco è di volersi chiudere su se tessi, nel massimo controllo nazionale delle imprese.

 

Dimenticando che la concorrenza nel mercato della gestione d’impresa (a questo servono le Opa ostili, assimiliate invece solo ai raid dei fondi d’investimento mordi-e-fuggi) è una leva potente di efficienza e trasparenza degli obblighi d’impresa verso la miglior allocazione dei propri capitali. Come se non bastassero tutte le chiusure italiche anti concorrenza che si leggono nel nuovo Codice Appalti o nelle ridicole vicende di balneari e ambulanti. Ha ragione Carmine di Noia, direttore degli affari finanziari Ocse: la via da seguire è quella di una vigilanza e di un’Autorità finanziaria comune a livello Ue, non di continuare nella gara tra ordinamenti nazionali che, per chi è più piccolo, è gara suicida. 
 

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