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l'analisi

La lotta all'inflazione di Bce e Fed ha un ostacolo: le politiche protezionistiche

Mariarosaria Marchesano

L'Eurotower aumenta i tassi di 50 punti base e continuerà ancora. Ma Lagarde avverte i governi: "È importante iniziare a ritirare le misure di sostegno". Come negli Stati Uniti, anche in Europa c'è il rischio di inflazione fiscale. Parla l'economista Monacelli (Bocconi)

Le banche centrali proseguono praticamente all’unisono la lotta all’inflazione – ieri la Fed ha aumentato i tassi di 25 punti base ed oggi la Bce ha annunciato un rialzo di 50 punti base, così come anche la Banca d’Inghilterra – ma cresce la preoccupazione che tali sforzi possano essere in parte vanificati dai governi, che nell’ansia di fornire supporto a imprese e famiglie che hanno affrontato prima gli effetti di una crisi pandemica e poi di uno choc energetico, stanno mettendo in campo politiche protezionistiche che finiranno con l’esercitare una spinta all’aumento dei prezzi innescando una spirale perversa. “Man mano che la crisi energetica diventa meno acuta, è importante iniziare subito a ritirare le misure di sostegno in linea con il calo dei prezzi dell'energia e in modo concertato”, ha detto la presidente della Bce, Christine Lagarde in conferenza  stampa a Francoforte. “Eventuali misure di questo tipo che non rispettino tali principi probabilmente aumenteranno le pressioni inflazionistiche a medio termine, il che richiederebbe una risposta di politica monetaria più forte”. Un esempio è quello che sta avvenendo negli Stati Uniti.

“Qui si è sviluppata un’inflazione di origine fiscale – spiega al Foglio l’economista della Bocconi, Tommaso Monacelli – che in Europa non è ancora evidente perché è maggiore l’incidenza della componente energetica. Ma la cosa più grave che sta accadendo e di cui in molti fingono di non accorgersi è che il cambio di regime fiscale non orienta più le aspettative di imprese e famiglie e questo mix di malumore e mancanza di fiducia potrebbe arrivare prima o poi anche sui mercati che già dimostrano di non amare i continui rialzi dei tassi d’interesse”. Gli Stati Uniti sono finiti in un vicolo cieco quando, qualche settimana fa, un gruppo di repubblicani alla Camera ha cercato di costringere il presidente Joe Biden ad accettare tagli alla spesa minacciando di non alzare il tetto del debito pubblico (già raggiunto a 31.400 miliardi di dollari), atto che Yellen ha definito “irresponsabile” dopo aver annunciato che saranno introdotte misure contabili per evitare fino a giugno il rischio di un default. Vista dall’Europa, non si comprende se questa crisi è il solito teatrino a cui (non solo) gli Stati Uniti ci hanno abituati quando devono approvare il bilancio (come non ricordare le manovre economiche italiane approvate all’ultimo secondo) oppure una miccia che potrebbe accendere un fuoco più grande modello inglese. “Sta di fatto – osserva Monacelli – che anche in Europa è avvenuto un cambio di rotta radicale nella politica fiscale quando è stata sospesa tutta l’architettura dei vincoli di bilancio. Questo meriterebbe un dibattito di cui non si vede neanche l’ombra”, conclude l’economista. 

I mercati finanziari internazionali – molto sensibili alle mosse delle banche centrali – stanno praticamente ignorando il bubbone del debito americano e del rischio che considerano più ipotetico che reale di un default a stelle e strisce. “Questa volta sul tema del debito americano bisognerebbe prestare maggiore attenzione rispetto al passato – prosegue Monacelli – manca un’indicazione chiara sull’orientamento della politica fiscale del paese e se la situazione di stallo al Congresso dovesse perdurare, questo potrebbe arrivare a minare la fiducia degli investitori”. Non si può del tutto escludere, secondo Monacelli, uno scossone sui mercati com’è accaduto nel Regno Unito, anche lì in modo del tutto inatteso. Tutto questo, naturalmente, non rappresenta un rischio immediato poiché la saga del debito americano va avanti da decenni: il tetto è stato alzato decine di volte negli ultimi e i treasury ne sono sempre usciti bene, come fa notare Alessandro Fugnoli, strategist del gruppo d’investimenti Kairos. “Per il momento non c’è alcun tipo di allarme sui mercati internazionali – dice in un colloquio – che percepiscono il tetto del debito come una disputa interna agli Stati Uniti e, comunque, bisognerebbe aspettare qualche mese per testare la capacità del Tesoro di rimborsare i suoi obbligazionisti. Fino ad allora sono propenso a pensare che la cosa si sgonfierà da sola com’è successo altre volte, ma è vero che quello delle politiche fiscali dei governi sta diventando un tema sempre più sensibile per i mercati finanziari, negli Stati Uniti come in Europa”. Il punto è che le banche centrali non dovrebbero condurre da sole la lotta all’inflazione, ma essere coadiuvate da governi sempre più orientati a mettere il debito pubblico su un percorso di stabilizzazione. “Invece sta avvenendo esattamente il contrario – prosegue Fugnoli – con aiuti pubblici reiterati e la messa in atto di politiche protezionistiche dalle due sponde dell’Atlantico, che vanno in direzione opposta al libero mercato”. 

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