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l'oro nero

Non ci sono più le sette sorelle: il futuro del petrolio è su sette mari

Stefano Cingolani

Lo snodo fondamentale del Mediterraneo, il ruolo inedito di Cipro e Israele, la liberazione dal cappio di Putin. Indagine sui nuovi equilibri energetici, con un punto interrogativo su Eni

Le parole hanno un senso, anzi ne hanno molti e spesso contraddittori. Prendiamo la parola del momento: hub con l’acca sonora. In inglese vuol dire propriamente mozzo di una ruota. Adottata dall’aeronautica significa uno scalo centrale nel quale cambiare rotta e spesso compagnia, in informatica indica il dispositivo che collega al server, adesso è la più usata nel gergo energetico. L’Italia cerca di diventare un hub che faccia da raccordo tra Africa ed Europa. La Turchia vuole essere un hub tra il Caspio, i Balcani, il Levante. E perché no, la Spagna con il gas liquefatto e il petrolio dalle Americhe verso la Francia e la Germania. Ogni paese che s’affacci sul Mediterraneo pensa di essere lo snodo del futuro, ma il vero hub è lo stesso Mare Nostrum nel quale si bagnano “mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma innumerevoli civiltà accatastate le une sulle altre”, ha scritto Fernand Braudel. Questi mille volti emergono plasticamente dalle onde insieme al gas e al petrolio che sgorga dagli abissi. 

Il Mediterraneo ha recuperato una nuova centralità, ma non è certo il solo. C’è l’Atlantico dove dominano gli Stati Uniti che consumano più di tutti e hanno superato in produzione ed export l’Arabia Saudita, la quale nel Golfo Persico è insidiata dal piccolo ma aggressivo Qatar, dotato di ingenti riserve di metano, e dal grande nemico iraniano. C’è l’inestinguibile sete di Pechino che risucchia come un’idrovora le petroliere salpate da Singapore verso il Mar della Cina. L’Australia fa da spola tra l’Oceano Indiano e il Pacifico e vuole imitare gli Stati Uniti. Il Mare del Nord diviso tra Norvegia e Gran Bretagna è destinato a prosciugarsi, ma sta liberando l’Europa dal cappio di Putin. Secondo Daniel Yergin, uno dei maggiori analisti americani, embargo e price cap insieme hanno determinato un nuovo ordine energetico mondiale, basato non più sulla globalizzazione, ma sull’esistenza di due supply chain tra loro autonome, quella occidentale e quella russa. In realtà, più che una Jalta degli idrocarburi assisteremo nei prossimi anni a un mercato plurale diviso in blocchi tra i quali si alternano conflitto e cooperazione secondo linee segnate più dalla politica che dalla convenienza economica. Sette mari per le sette sorelle, come le chiamò Enrico Mattei, alle quali se ne aggiunge sempre qualcuna. Allora le principali compagnie petrolifere multinazionali erano le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Socal (Standard oil of California), Gulf, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum; fino alla crisi petrolifera hanno svolto un ruolo dominante nel mercato del petrolio. In cima sono arrivate da anni le sorelle cinesi guidate da Petrochina, la francese Total, la norvegese Equinor (ex Statoil), la venezuelana Pdvsa, la brasiliana Petrobras, l’algerina Sonatrach, senza contare le russe Rosneft, Gazprom, Lukoil. E ovviamente non possiamo dimenticare l’italiana Eni che occupa una posizione di tutto rilievo.

Da Cipro alla Sicilia

Il flusso di gas dal Maghreb e dal Caspio ha consentito all’Italia, maggior consumatrice di metano dopo la Germania, di ridurre dal 40 al 15 per cento le importazioni siberiane. L’Algeria è ormai la prima fornitrice, nell’attesa che possa aumentare anche la produzione libica. Il Tap, contro il quale è stata condotta per anni una battaglia senza esclusione di colpi da parte dei Cinque stelle, del Pd pugliese e di frange verdi, oggi viene considerato una benedizione e può essere raddoppiato. Intanto sono emersi nel vicino oriente due outsider destinati a giocare un ruolo di primo piano: l’Egitto e soprattutto Israele che si è scrollato di dosso la maledizione sulla quale ironizzava Golda Meir. La prima donna ad aver guidato il suo paese amava dire con amarezza: Mosè dopo quarant’anni trascorsi a peregrinare nel deserto, aveva portato il suo popolo nell’unico posto del medio oriente dove non c’era il petrolio e nessuno era stato in grado di trovarlo nemmeno in tempi moderni. Oggi non è più così.

Non dal deserto, ma dalle acque a ovest di Haifa, esce metano: un giacimento gigantesco, chiamato Leviathan come il mostro marino della Bibbia che per Hobbes incarnava la potenza dello stato assoluto nei confronti del suddito, racchiude 450 miliardi di metri cubi di gas e non è l’unico. Poco più a nord c’è Tamar, meno ricco ma non di molto; nell’insieme Israele potrebbe contare su un potenziale di 900 miliardi di metri cubi, così da garantire per 40 anni il fabbisogno di quella che sta diventando una potenza energetica chiave nel vicino oriente. Non troppo lontano, in acque egiziane, ecco Zohr (in arabo significa mezzogiorno), scovato dall’Eni che ne possiede il 50 per cento. Con l’Egitto il governo israeliano ha stipulato un accordo da 15 miliardi di dollari per trasformare la patria dei faraoni nella base per liquefare il gas dei due paesi e venderlo all’Europa. Israele potrebbe accrescere nei prossimi anni la produzione fino a 40 miliardi di metri cubi l’anno, in gran parte destinati all’export. L’intesa con il Libano sui confini marittimi e le rispettive Zone economiche esclusive rende tutto più facile. Poi c’è Cipro dove l’Eni insieme alla Total ha trovato proprio lo scorso anno altro metano, sempre nelle profondità marine: i pozzi Cronos e Zeus hanno un potenziale da 150 miliardi di metri cubi. L’isola divisa tra Grecia e Turchia potrebbe diventare lo snodo fondamentale del metanodotto chiamato East Med che attraverso Creta arriva fino in Puglia. In questa complessa trama adesso entra anche la raffineria siciliana di Priolo. 

Leviathan, Tamar, Zhor, Cronos, Zeus.

Miti dell’oriente mediterraneo che hanno segnato la cultura occidentale e salveranno l’Europa dalla nuova minaccia che arriva dalle steppe. Cipro, quest’isola dove oriente e occidente continuano a incontrarsi e a scontrarsi, è luogo deputato di intrecci e magheggi. Lì risiede il fondo Argus al quale la Lukoil vuol cedere la Isab di Priolo (seconda raffineria italiana dopo la Saras dei Moratti in Sardegna) acquistata nel 2008 dalla Erg dei Garrone. L’embargo al petrolio di Mosca ha scosso la Lukoil. Il fondatore e presidente Vagit Jusufovic Alekperov, nato a Baku, l’antica capitale del petrolio, già viceministro dell’energia quando l’Unione sovietica emetteva i suoi ultimi rantoli, si è dimesso in seguito all’invasione dell’Ucraina. E zar Vlad ha stretto il suo controllo anche sul primo gruppo petrolifero. Prima ancora che scattassero lo sanzioni l’impianto siciliano, principale polo europeo di Lukoil, è finito nei guai. Le banche hanno stretto i rubinetti finanziari finché a dicembre non si sono chiusi anche quelli del greggio russo. Il governo italiano ha minacciato l’amministrazione controllata e la nazionalizzazione, così Lukoil ha deciso di mollare. Si è fatto avanti il fondo americano Crossbridge che fa capo a Postlane Capital di New York e porta con sé la olandese Vitol (con sede a Ginevra) una delle maggiori società che commercia in materie prime. Ma le trattative si sono bloccate ed è entrata in campo la filiera cipriota: una questione di prezzo (avrebbe offerto un miliardo e mezzo di dollari invece di un miliardo) o di affinità elettive?

Limassol, il centro finanziario di Nicosia, nella parte greca della città, è stato chiamato Limassolgrad per l’elevata concentrazione di oligarchi russi (Alexandr Ponomarenko, Roman Abramovic, Ališer Usmanov, Leonid Lebedev per fare alcuni nomi). Grazie alle sanzioni il governo cipriota ha congelato quindici imprese con 60 milioni di euro, ma arrivano a ben 97 miliardi di euro gli investimenti moscoviti nell’isola, secondo le principali stime. Non è russo nonostante il cognome Michael Bobrov, 52 anni, nato in Sudafrica, ma che ha trascorso molti anni in Israele. A lui Argus ha affidato la società veicolo Green Oil Energy (Goi) con la quale acquistare la Isab. Ma che cos’è Argus? Si tratta di una società che investe in azioni e gestisce circa due miliardi di euro, non molti se paragonati ai colossi Blackstone o Kkr, ma non pochi rispetto agli italiani Equita, Clessidra o 21 Invest. Fondata a Nicosia da un gruppo di broker nel 2000, quindi tredici anni prima che Cipro finisse in default, è guidata da una donna, Andri Tringodou, che è tra i primi soci. Bobrov a sua volta è azionista del Bazan Group (ha fatturato 6,6 miliardi di dollari nel 2021), che possiede la principale raffineria del paese nella baia di Haifa. Il 33 per cento del gruppo è in mano alla Israel Corporation, la più grande holding industriale israeliana che opera soprattutto nei fertilizzanti, nella chimica e nell’energia, creata nel 1968 dall’allora governo laburista, insieme al prominente uomo d’affari Shaul Eisenberg. Un altro 15 per cento appartiene alla Israel Petrochemical. Proprio le tecnologie israeliane dovranno servire per la riconversione “più verde” dell’Isab secondo gli impegni assunti con il governo italiano.

Bobrov ha lavorato a lungo per Trafigura ed è lui l’anello di congiunzione tra finanza e industria. La società svizzera è stata la principale piattaforma di scambio per Rosneft, la compagnia petrolifera posseduta dallo stato e guidata da Igor’ Secin, braccio destro di Vladimir Putin. Fondata nel 1993, è diventata la numero due nel 2007 quando ha acquistato all’asta le attività della Jukos, la società finita in bancarotta dopo tre anni di contenziosi sugli arretrati fiscali e dopo l’arresto del proprietario Michail Chodorkovskij, il quale ha accusato Secin di aver organizzato l’intero complotto per impossessarsi del suo patrimonio. Trafigura è stata criticata per aver continuato a intrattenere i suoi rapporti con Rosneft anche dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014 e le pur blande sanzioni occidentali. Ma con la reazione occidentale all’attacco contro l’Ucraina, ha dovuto tagliare i suoi legami, l’ultimo dei quali in ordine di tempo, una raffineria in India, nel gennaio scorso. Gli interessi, come gli antichi amori, sono duri a morire, ora i sospetti riguardano la filiale di Singapore verso la quale potrebbe ancora filtrare greggio russo destinato alla Cina. Voci sempre smentite. Nel vicino oriente emergono nuovi poteri petroliferi. La lunga mano della Russia si ritira, anche se non del tutto. Mosca ha legami strategici con l’Egitto, un’amicizia di lunga data con l’Algeria, una presenza militare in Siria, con tanto di base navale, uno stivale in Libia e un intreccio con Israele che passa attraverso la comunità ebraica russa: due grandi oligarchi come Roman Abramovic e Michail Fridman sono cittadini israeliani. Anche questo spiega la posizione cauta se non ambigua di Tel Aviv sull’invasione dell’Ucraina. 

Le ambizioni di Erdogan

Attorno all’isola di Cipro le navi militari turche seguono da vicino le ricerche delle compagnie occidentali, a cominciare proprio dall’Eni. Le ambizioni dell’ultimo sultano non sono facilmente limitabili e ora, nonostante la scassatissima economia e una lira che non vale una lira (battuta facile, ma veritiera) si sta gettando sul gas in competizione con l’Italia. La Ue gli dà oggettivamente una mano. Il gas del Turkmenistan, pari a circa 20 trilioni di metri cubi, potrebbe arrivare in Europa proprio attraverso la Turchia, lo stesso vale per le riserve azere. Un ulteriore progetto vorrebbe portare il metano dall’Iraq settentrionale, costruendo un nuovo gasdotto di circa 200 chilometri per connetterlo alla rete principale. Infine, i giacimenti scoperti a nord delle coste della Turchia nel 2020, pari a circa 540 miliardi di metri cubi, entreranno in funzione l’anno prossimo e potranno fornire fino al 25 per cento della domanda nazionale. In questo modo, Ankara ha costruito una prima “base energetica” a Sakarya che, nelle intenzioni di Recep Tayyip Erdogan, dovrebbe divenire un mercato di riferimento per il gas naturale. Il presidente, in particolare, ha annunciato che la Turchia è in procinto di creare un mercato dell’energia avanzato in cui prodotti diversificati, insieme a molteplici contratti, permetteranno di determinare prezzi di riferimento. 

Per rendere credibile la volontà di diventare un hub energetico regionale, però, è necessario potenziare la portata del gasdotto Tanap che percorre l’intera penisola anatolica. Il paese oggi è il terzo importatore in Europa dopo Germania e Italia, grazie a contratti con Russia, Iran, Azerbaigian e Algeria. La Turchia dipende ancora soprattutto da Mosca che ha fornito il 45 per cento della domanda domestica di gas nel 2021. L’Unione europea guarda anche a progetti potenzialmente concorrenti alla strategia turca, come il gasdotto East Med e i recenti accordi con Egitto e Israele. Tutto ciò mette in agitazione gli sceicchi del Golfo.
Il predominio saudita dura dal mitico incontro tra il re Ibn Saud e Franklin Delano Roosevelt a bordo dell’incrociatore americano Quincy, il giorno di San Valentino del 1945. Ma oggi anche qui bisogna guardare a mille cose insieme. L’oro nero si mescola con la politica e persino con la religione tra l’Iran sciita, il Qatar sponsor dei fondamentalisti e Riad con la dannazione di Al Qaeda. Il principe ereditario Mohammad bin Salman al Sa’ud, uomo forte del regime, tiene gli stivali di marocchino in più staffe; non è una novità, ma questa volta scherza con il fuoco di Mosca (Abramovic ha fatto da mediatore) e alza il prezzo con Joe Biden per ottenere quei privilegi che gli aveva concesso Donald Trump. Troppe uova in un solo paniere, fatto sta che il Golfo Persico tra tutti i sette mari è quello meno affidabile anche se non se ne può fare a meno. 

Il petrolio dei vichinghi

Sul Mare del Nord fioriscono voci e leggende come quelle trasportate dalle navi vichinghe che facevano la spola tra Norvegia e Inghilterra. Proprio il paese scandinavo è quello che più ha tratto vantaggio dall’embargo alla Russia. E i complottisti filorussi battono la grancassa. Da dove proviene Jens Stoltenberg segretario generale della Nato super falco anti Putin? Da Oslo, dove è stato leader del partito laburista. L’anno scorso la compagnia di stato, Equinor, è diventata la fornitrice numero uno di gas con 90 milioni all’Unione europea e 36 milioni alla Gran Bretagna. L’interscambio energetico include anche ingenti quantità di rinnovabili che rappresentano il 98 per cento dell’elettricità prodotta, soprattutto da impianti idroelettrici. “La Norvegia può essere quindi considerata una grande batteria di bilanciamento del sistema elettrico europeo”, spiega Massimo Lombardini dell’Ispi. Inoltre è all’avanguardia nella tecnologia di cattura e stoccaggio della CO2: dal 1996, nel campo norvegese di Sleipner un milione di tonnellate viene stoccato annualmente nel sottosuolo. Altro che hub, un produttore a tutto campo e di tutte le principali fonti, una democrazia consolidata, un partner affidabile, un esempio da seguire, non un paese da demonizzare come fanno gli italici russofili. Ma il Mare del Nord non sta esaurendo le sue grandi riserve? Prima è stato la fonte principale del boom britannico thatcheriano negli anni 80, adesso ha reso la Norvegia ricchissima pagando con gli interessi pensioni, sanità, tutto il sostanzioso stato sociale di qui al prossimo secolo (anche grazie all’accorto uso che ne ha fatto lo stato). Quanto potrà durare? Non c’è anno che non salti fuori una fosca previsione, è chiaro che i flutti neri e tempestosi non nascondono campi inesauribili, eppure nel 2021 l’Eni, attraverso la Vår Energi della quale possiede quasi il 70 per cento, ha scoperto altro petrolio e gas in un pozzo in acque territoriali norvegesi. La stima preliminare è tra 220 e 360 milioni di idrocarburi. Insomma nei freddi mari del nord c’è ancora molto da trivellare. 

La rivoluzione americana

Più ancora della Norvegia, gli Stati Uniti d’America sono il bersaglio principale della propaganda russa: il loro gas liquefatto sta invadendo l’Europa a prezzi più alti del metano siberiano, ecco perché combattono in Ucraina la loro guerra per procura. Sull’altra sponda dell’Atlantico la percezione è del tutto opposta: la “shale gas and oil revolution” sta finendo, quindi tutto quel che va in Europa, in Asia e nel resto del mondo rischia di danneggiare gli interessi americani. Se si avverano le previsioni e si diffonde negli States questo stato d’animo, sono guai per tutti. Sono in molti a ritenere che siamo ormai all’apogeo di quel ciclo cominciato quindici anni fa con la diffusione a macchia d’olio sul terreno americano dell’estrazione di idrocarburi da rocce di scisto bituminose attraverso perforazione orizzontale e immettendo acqua con sabbia per spaccare il terreno. Un boom colossale che ha contribuito in modo determinante all’autosufficienza energetica americana, così che dal 2013 l’amministrazione Obama ha consentito l’esportazione. Anche se oggi la maggior parte delle risorse servono per consumi interni (l’amministrazione prevede quest’anno un’offerta inferiore del 2 per cento alla domanda), le flotte di petroliere americane che attraversano i sette mari hanno rovesciato i rapporti di forza e messo l’Opec con le spalle al muro. L’Europa non ha seguito gli Usa (fanno eccezione Gran Bretagna, Polonia e Ucraina prima dell’invasione) anche per il peso della lobby verde e le opposizioni a livello locale in tutti i paesi potenzialmente interessati. Il cappio russo sembrava più dolce dello spettro di “territori devastati”. Ma il gas e il petrolio americani hanno dato un aiuto fondamentale alla stabilità dei prezzi e a contenere l’inflazione in tutto il mondo. 

Quel che rende più incerta la shale industry è la combinazione tra l’aumento dei costi di produzione, il rincaro del denaro (occorrono grandi capitali per far funzionare il meccanismo), la transizione verso le energie rinnovabili. La pandemia è stata disastrosa, molti piccoli produttori sono falliti  e di fronte a queste incertezze anche i più grandi temono i rischi a medio termine, nonostante i vantaggi offerti dall’embargo alla Russia. Un primo segnale di vulnerabilità si era manifestato già nel 2014 quando i prezzi erano scesi troppo, nel frattempo il Big Oil è tornato a pompare dai pozzi  più tradizionali del Texas e del Nuovo Messico. Non tutto lo shale è perduto, i colossi del settore come Pioneer, Devon, Conoco, Chevron hanno le spalle abbastanza grosse e il portafoglio abbastanza pieno di nuovi siti, ma la selezione è drammatica e non del tutto salutare. L’America del nord, insomma, non sta traendo il maggior vantaggio dall’embargo verso la Russia. Quanto all’America del sud potenzialmente più ricca di idrocarburi della stessa Arabia Saudita, è bloccata dalle incognite che pesano sul Venezuela, paese fondatore dell’Opec nel 1960, e sul Brasile prima con l’ondivago Bolsonaro ora con Lula, il vecchio cavallo di ritorno.

Produrre o distribuire?

E torniamo alla strategia degli hub che suona bene quando la si ascolta, ma fa venire parecchi grattacapi quando ci si ragiona su. L’Italia è un hub del petrolio con sei raffinerie sulle coste, le più grandi in Sardegna e in Sicilia. Affinché lo diventi anche per il metano occorrono rigassificatori, non solo nuove tubature attraverso i mari, altrimenti lo stivale è solo un ponte da percorrere più rapidamente possibile senza che nessun valore aggiunti resti sul territorio, lo ha ricordato l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi. Dopo Algeri, insomma, Giorgia Meloni dovrebbe fare una visitata di stato a Piombino. Ma quel che conta nel grande gioco dell’energia non è tanto chi la trasporta, quanto chi la produce. Ciò pone in una posizione particolarmente scomoda almeno tre grandi paesi industrializzati, cioè la Germania e l’Italia in Europa e il Giappone in Asia. La Spagna si è attrezzata meglio anche grazie ai rigassificatori, la Francia resta nuclearizzata anche se le sue centrali sono invecchiate, la Gran Bretagna ha il Mare del Nord che alimenta anche l’Olanda, e i norvegesi fanno gli sceicchi del settentrione, come abbiamo visto. La Cina e l’India sono ormai i maggiori consumatori dopo gli Stati Uniti che, però, sono autosufficienti. Quale posizione può occupare il Bel Paese povero di idrocarburi nel proprio sottosuolo? Quella di grande mercante? L’Eni è stata a lungo trasformata in un broker quando era dominante il metano siberiano. In questi anni è tornata a scavare pozzi con grandi risultati dall’Africa centrale fino al circolo polare artico. Non può essere schiacciata tra il Maghreb, il medio oriente e l’Italia; senza indebolire il suo radicamento principale, deve restare una compagnia a vocazione globale, nel suo interesse, dei suoi azionisti, del paese. E ora che si avvicina il gran circo delle nomine, oltre agli uomini, spesso usati come pedine per riempire le caselle, occorre guardare alle strategie.

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